La piazza di Valeriano ospita il Monumento ai caduti realizzato da Nane Zavagno (1989), i cui volumi squadrati in pietra grigia suggeriscono la bocca di un cannone, inserendosi in sequenza lungo la scalinata che conduce alla Chiesa di S. Stefano, mentre dalla parte opposta della strada sorge l’Oratorio di Santa Maria dei Battuti, entrambe tappe fondamentali per conoscere da vicino l’opera di Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone e di altri artisti come Pilacorte, che qui hanno operato.
CHIESA DI SANTO STEFANO PROTOMARTIRE
In posizione dominante su un’altura e documentata intorno al 1186-1187, la pieve di Santo Stefano, filiale di San Pietro apostolo di Travesio, venne riedificata con un’ ampia facciata a capanna nel 1492, come si legge su un’ iscrizione a fianco del pilastro destro del portale accanto al nome di chi la eresse, l’ udinese “Francesco de Zanpigia”. Sull’architrave, poggiante su due capitelli, è scolpita la dedica a Santo Stefano accanto all’arma dei Savorgnan, giurisdicenti del luogo, ricordando la committenza di Nicolò Savorgnan. L’impostazione del portale e la sua decorazione, con due leoncini raggiati ai lati e teste accoppiate di puttini a incorniciare gli stemmi angolari, si rifanno alla scuola di Pilacorte e in particolare sono stati assegnati a Carlo da Carona (1508).
L’interno a navata unica e con due cappelle a sud, presenta un’ abside poligonale con arco trionfale ogivale e costoloni a sesto acuto impostati su otto peducci. Intorno all’ottavo decennio del Settecento venne realizzato l’altare marmoreo di gusto barocco per opera di Silvestro e Giuseppe Comiz di Pinzano, con le statue di Santo Stefano e Valeriano ai lati della mensa, mentre un coro ligneo di fattura secentesca, con schienali intarsiati, oggetto di rifacimenti dopo il terremoto, completa l’arredo del presbiterio. Ai lati dell’arco trionfale si conservano a destra gli affreschi del Pordenone e a sinistra quelli di Marco Tiussi, artista e decoratore spilimberghese, che riprendendo la finta architettura ideata dal Pordenone nel 1506 raffigura nel 1535 con il linguaggio della devozione popolare la Trinità tra la Madonna con Bambino e San Giovanni Battista.Gravemente danneggiata dal terremoto del 1976, che causò il crollo della volta, la Chiesa e i suoi arredi sono stati oggetto di un accurato restauro.
Nel 1506 Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone data e firma alla destra dell’arco trionfale il Trittico ad affresco che raffigura San Michele arcangelo tra i Santi Valeriano e Giovanni Battista, ambientati entro una struttura architettonica tripartita, a conci bianchi e rossi, affine a quella che accoglie la Madonna nel Duomo di Pordenone dipinta dall’artista probabilmente nello stesso periodo. Lo spazio poco profondo delle finte nicchie, sormontato da una lunetta con un vaso contrassegnato dallo stemma dei Savorgnan, signori di Pinzano, è animato da una luce proveniente da destra che contribuisce ad ambientare e a dare rilievo alle tre figure, collocate entro nicchie decorate con finte marmorature, secondo un’iconografia legata alla tradizione evidente anche nella postura di San Giovanni Battista, avvolto dal cartiglio. La tecnica pittorica, finitissima nel trattamento delle capigliature, a boccoli, e il linearismo dei contorni rimandano alla lezione di Gianfrancesco da Tolmezzo, all’epoca protagonista della decorazione ad affresco in Friuli, mentre il bel volto di San Valeriano, intenso e assorto, già rivela la mano abile dell’artista nei morbidi trapassi di tono e nella tecnica a velature dell’incarnato. Il Santo è raffigurato come un giovane con la spada, vestito elegantemente in abiti contemporanei, alla moda e con colori vivaci, secondo un ideale di bellezza desunto dai maestri dell’arte veneziana come Carpaccio, mentre San Michele esce illusionisticamente dalla sua nicchia per trafiggere con lo spadone il demonietto ai suoi piedi, anch’esso sporgente con gli artigli dallo spazio a lui assegnato. Un cartiglio, oggi parzialmente leggibile, sullo stipite sinistro della nicchia, reca l’iscrizione “M Durigo de/Lasin a fato far questo/S. Michel per sua Devotione/ MCCCCCVI adi 6/Zuane Antonio de Sacchis/abitante in Spilimbergo”. Scoperto a inizio Novecento e attribuito al Pordenone dal grande storico dell’arte Lionello Venturi, è a oggi la prima opera certa e datata che documenta l’ attività giovanile dell’artista.
VALERIANO, ORATORIO DI SANTA MARIA DEI BATTUTI
La confraternita dei Battuti è documentata già all’inizio del Trecento a Valeriano, dove fece erigere un Oratorio poco lontano dalla Chiesa parrocchiale di Santo Stefano. La confraternita era una associazione di devoti caratterizzati dal desiderio della penitenza che espiavano flagellandosi con cordicelle dette “disciplina”. I Battuti si diffusero da Perugia, dal 1260, in tutta Europa: si distinsero per lo spirito caritatevole nei confronti degli ammalati e dei pellegrini che valicavano le acque dei fiumi, come in questo caso il Tagliamento, essendo Pinzano e Valeriano tappa importante lungo l’antica via di Allemagna. A Valeriano esisteva infatti un Hospitale, nel contesto di una più diffusa rete di vari ospedali quali San Daniele, San Tomaso di Majano, Spilimbergo, San Vito al Tagliamento, Pordenone, Portogruaro, etc.: poco lontano dall’Oratorio è infatti documentato verso metà cinquecento un modesto edificio dotato di cinque letti, dove si poteva dormire e mangiare, ovvero uno dei tanti luoghi destinati ad accogliere, curare e dare assistenza gratuita a viandanti e pellegrini di passaggio.
A testimonianza di questo antico cammino, l’Oratorio di Santa Maria dei Battuti si annunciava da lontano con la gigantesca effigie di San Cristoforo, protettore dei pellegrini e dei traghettatori, parte della decorazione della facciata affrescata dal Pordenone. Il portale lapideo d’ingresso venne scolpito nel 1499 con decorazione a candelabre da Giovanni Antonio Pilacorte, e molto probabilmente era completato da statue collocate alla base e alla sommità dell’archivolto su cui si legge la data “1499.ADI. DE. MAZO”, come ad esempio nel portale che si conserva nella pieve di San Pietro a Travesio.
Nell’ottobre del 1524 Pordenone veniva pagato per la sua opera nell’Oratorio: rispetto al giovanile trittico dipinto nella Chiesa di Santo Stefano, nel frattempo l’ artista aveva imparato a padroneggiare ampi spazi ad affresco, essendo diventato il principale interprete della nuova moda della decorazione degli esterni che faceva ricorso a finte architetture per ricreare illusionisticamente lo spazio della parete, al fine di dominare, con figure imponenti e vivaci cromie, anche lo spazio circostante. Gli affreschi della facciata, già da tempo di difficile lettura per il deterioramento del colore a causa degli agenti atmosferici, e gravemente lesionati dal terremoto del 1976, sono stati staccati per motivi di conservazione e collocati all’interno, ai lati del portale: per mantenere la memoria dell’antica decorazione esterna, sono stati sostituiti da una sinopia che ripropone il disegno delle figurazioni, eseguita dagli allievi del corso di decorazione dell’Accademia di Belle Arti di Torino sotto la guida di Giancarlo Venuto.
Pordenone affresca dunque l’intera facciata raffigurando, entro un finto telaio architettonico, al centro la Madonna col Bambino incoronata da Angeli in trono, contrassegnata dallo stemma dei Savorgnan, alla destra del portale la figura a tutta altezza di un gigantesco San Cristoforo, a sinistra, nella partitura inferiore, i Santi Valeriano, Giovanni Battista e Stefano e sopra l’ Adorazione dei Magi, mentre sotto lo spiovente del tetto completava la decorazione un fregio con putti intenti a giocare con vari animali, insieme a un Ecce Homo affrescato all’interno della lunetta scolpita da Pilacorte.
L’interno dell’Oratorio, a navata unica con volta a botte e abside poligonale con lunette archiacute e vele suddivise da costoloni, venne decorato ad affresco da maestranze legate ai modi di Vitale da Bologna (fine XIV sec.) con successivi interventi quattrocenteschi: sulla parete sinistra Cristo in gloria tra gli apostoli, accanto alla Madonna, e sulla parete destra l’ Ultima Cena percorsa da una ritmica concatenazione di gesti, interrotta dalla figura del San Giovanni in grembo a Gesù e dal committente inginocchiato al di qua della mensa, e infine la figura di San Nicolò e la Trinità. Degli interventi decorativi con le storie di Maria che decoravano la volta a botte, crollata a causa del terremoto, rimangono le scene dell’Annunciazione e dello Sposalizio (inizi XV sec.).
All’interno si conserva anche una pala d’altare di Gasparo Narvesa (1595-1598 c.) che l’artista pordenonese ha dedicato alla guarigione dalla cecità della figlioletta Vincenza, il cui ritrattino si affaccia dall’angolo inferiore sinistro, e raffigura la Trinità e i Santi, tra cui si individua San Severo, a ricordarci che il dipinto già decorava la chiesa dedicata al santo e demolita, che sorgeva sulla rive del Tagliamento, a sud dell’abitato. In origine l’ Oratorio era arricchito dal prezioso altare ligneo policromo dorato intagliato nel 1509 da Giovanni di Domenico da Tolmezzo (1485-ca. 1531) e da un Crocefisso ligneo tardo-quattrocentesco, ora entrambi al Museo d’Arte di Pordenone, dove sono pervenuto per acquisizione (1955).
Vero scrigno d’arte, l’Oratorio conserva uno dei capolavori di Giovanni Antonio de Sacchis detto il Pordenone, la Natività, affrescata sulla parete sinistra nel 1527, che riflette quella dimensione intima e domestica e quella compostezza classica caratterizzante molte delle opere realizzate in loco dall’artista al rientro dall’impresa decorativa di Cremona. Si tratta di una maniera totalmente opposta a quella foga e “terribilità” che animano le portelle dell’organo di Spilimbergo o le scene affrescate a Travesio realizzate peraltro nello stesso momento ma per spazi più ampi e impegnativi: qui a Valeriano la figurazione infatti assume i caratteri del racconto ispirato dalla fede popolare, e l’artista si confronta direttamente con la realtà circostante, con il paesaggio pedemontano e con le persone che lo abitano, come evidenzia l’ambientazione rustica della capanna e del fienile, gli scorci domestici con la popolana che porta l’acqua con i secchi in rame salendo le scale di casa dove sulla soglia l’aspetta un cagnolino bianco, mentre un pastore è intento a suonare la cornamusa accanto al suo gregge, contemplando il paesaggio dai profili montagnosi punteggiato da castelli e animato da cavalieri.
Al centro l’ampia e avvolgente figura piramidale della Madonna inginocchiata domina lo spazio, e il leggero ripiegamento del suo capo verso destra si riflette nell’inclinazione sul moto degli angeli che scendono dall’alto, mentre in primissimo piano, su un cuscino ricamato, il Bambino si offre direttamente all’adorazione dei fedeli, quasi a tu per tu, incrociando il suo sguardo con quello protettivo e confidente della Madonna: alla sua sinistra è San Giuseppe e dietro di lui Sant’Antonio, mentre a destra, in un elegante abito da cavaliere e lucente corazza, San Floriano è intento ad abbeverare i buoi alla fonte che sgorga ai piedi della Madonna. La partitura cromatica appare molto ricca e variata, dispiegando il manto rosso-arancio di Giuseppe, reso ancora più vivace dal confronto con quello azzurro della Vergine. Una finta architettura di ispirazione classica inquadra e delimita come un altare la Natività, aumentando il senso dell’illusionismo spaziale, e sempre lungo la parete destra, oltre la finta colonna, il Pordenone affresca secondo la tradizione dei vangeli apocrifi la Fuga in Egitto con il miracolo della palma che si piega per offrire i suoi frutti a Gesù, raffigurando anche un pellegrino con la bisaccia in spalla: si tratta di un episodio che si riferisce al miracoloso nutrimento offerto dalla provvidenza al viandante e quindi da mettere in relazione con la stessa missione caritatevole della Confraternita dei Battuti, e con la presenza a Valeriano di un loro Hospitale per i pellegrini.
PINZANO AL TAGLIAMENTO, LA CHIESA DI SAN MARTINO VESCOVO
Edificata sul luogo di un antico Oratorio documentato nel 1294 e dipendente dalla pieve di Santo Stefano di Valeriano, la Chiesa di San Martino vescovo è stata ricostruita nella prima metà del Settecento, e in facciata è decorata con un mosaico raffigurante San Martino realizzato dalla Scuola Mosaicisti del Friuli su bozzetto di Fred Pittino (Dogna, 1906-Udine, 1991).
L’interno a tre navate conserva, sopra l’organo in controfacciata, il gruppo ligneo con la Carità di San Martino, opera di scultore friulano del XVI sec, e lungo la navata sinistra, proveniente dalla Chiesa di San Nicolò in Castello, un animato gruppo scultoreo raffigurante il Compianto sul Cristo morto in legno di bosso e di fattura veneta settecentesca. Segue lungo la navata sinistra, un’ancona lignea contenente una pala con la Madonna col Bambino in trono tra i Santi Bernardino, Giuseppe, Margherita e Cecilia, di fattura veneta affine ai modi dei Vivarini, inserita in un altarolo intagliato e dorato da Giovan Battista Martini, appartenente alla grande famiglia dei pittori e intagliatori tolmezzini, la cui attività è documentata a Pinzano nella seconda metà del Cinquecento: a loro volta, dipinto e cornice sono stati inseriti in una sorta di altarolo a forma di cassonetto timpanato di fattura secentesca. Altre tele di scuola veneta secentesca decorano l’abside, ed infine lo Sposalizio mistico di Santa Caterina, di ascendenza veneto-cretese e riferibile al primo Cinquecento, è collocato lungo la navata destra.
L’altare maggiore, di suggestione rocaille, è opera dei fratelli Comici o Comiz di Pinzano (1773), una bottega attiva nel campo della statuaria e dell’altaristica a fine Settecento, che attesta la fortuna della tradizione locale della lavorazione della pietra, e la pala d’altare con S. Antonio in gloria è un prezioso dipinto di Giovanni Antonio Guardi (Vienna, 1699- Venezia, 1760) protagonista della pittura veneziana settecentesca insieme al fratello Francesco, celebre vedutista. Gianantonio, autore di capolavori quali le storie di Tobia nella Chiesa dell’Angelo Raffaele a Venezia, è documentato in Friuli con un altro capolavoro, la pala del Belvedere per Aquileia. Nell’impianto compositivo della pala per Pinzano, assegnabile al quinto decennio del Settecento, Guardi si confronta con la Supplica di Sant’Antonio di Pietro Liberi conservata nella Basilica della Salute a Venezia. L’artista infatti più che ispirarsi al vero, in questa fase stilistica guarda quali con nostalgia ai maestri della pittura di tocco e del tonalismo veneziano, rivelando il suo stile non finito, la pennellata sfrangiata: i contorni delle figure infatti sembrano dissolversi nell’aria e nella luce, in un dinamico esplodere di linee spezzate ed aperte, in un gioco di pennellate che si compenetrano tra loro come schegge.
Sulla pietra santa della mensa dell’altare è incisa la data di costruzione, il 1773, e accanto compare la data 1954, che ne ricorda il rimaneggiamento: la parte superiore dell’altare era infatti posta contro la parete della navata destra, occultando gli affreschi dipinti tra il 1525 e il 1527 da Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone, massimo protagonista friulano della pittura rinascimentale, attivo anche nella vicina Valeriano, oltre che, in questo periodo, tra Spilimbergo e Travesio.
Lungo la parete destra della chiesa, entro una finta edicola di gusto classicheggiante, che si sostituisce al tradizione altare ligneo intagliato, il Pordenone affresca la Madonna della Misericordia che allarga il suo manto sui fedeli inginocchiati ai suoi piedi mentre il Bambino offre il dolce frutto di una pera: sulla base del trono si legge l’iscrizione con i nomi dei committenti e la data, 1525: “CHRISTIANAE OLYMPIADOS TRECENTESIMAE QVINTAE/ANNO QUINTO HANC ENTHEACTAE VIRGINIS IMAGINEM DEVOTA/VNIO PONENDAM CURAVIT RECTORIBUS SEBASTIANO SV/ TORE ET IOANNE HENRICO COLLEGIS ANNVENTE PALLADIO/TEMPLI RECTORE”. Completa la raffigurazione l’Eterno Padre nel timpano, mentre due coppie di angeli simmetrici sostengono la corona e il manto, sottolineando una frontalità appena mossa dal panneggio morbido e avvolgente delle vesti della Madonna che segue il leggerissimo movimento del busto volgendosi a destra a reggere il Bambino. Composta e monumentale, la Madonna col Bambino si impone volumetricamente nello spazio con il suo ampio mantello, esibendo una preziosa veste arabescata esaltata da un caldo e dorato cromatismo. Il volto della Madonna, con i suoi lineamenti puri e l’espressione assorta, dal puro ovale morbidamente sfumato nei contorni, fissa il prototipo di bellezza femminile dell’artista, ovvero il “tipo” della sua modella ideale, mentre un’ attenta osservazione delle fisionomie e delle espressioni caratterizza i personaggi ai suoi piedi, i cui volti sono alla nostra altezza, quasi come se Pordenone avesse voluto mescolarli con i fedeli in carne e ossa, rivelando pienamente la sua attenzione al vero e l’intento illusionistico della sua pittura.
. Poco tempo dopo, su commissione dalla Confraternita di San Sebastiano, sulla parete est dell’attuale navata destra, nel 1527 il Pordenone dipinge San Sebastiano tra i Santi Rocco, Stefano, Nicola e Michele arcangelo, figure facenti parte di un più ampio ciclo di affreschi che decorava una cappella in parte perduta con la ristrutturazione settecentesca della Chiesa. Il Santo, sopra il quale si libra un angelo reggicorona, appare legato a una colonna reggente quel che resta di una architettura in rovina, e la sua elegante figura, dalla perfetta anatomia, si impone come fulcro compositivo dell’intera parete per la sua presenza statuaria e isolata, di una bellezza composta, serena, dall’ovale morbido inquadrato da una fitta capigliatura, e lo sguardo diretto verso lo spettatore. Ad animare la sacra conversazione, da sinistra San Rocco, in atto di mostrare la piaga, e ai cui piedi sta la figura inginocchiata di un donatore con un cartiglio, si volge verso San Sebastiano, accanto a Santo Stefano che insieme al Santo che gli è di fronte, San Nicola, con il pastorale e le tre palle d’oro, volge invece lo sguardo allo spettatore. All’estrema destra, fissato nella consueta posa con la lancia in atto di trafiggere un diavolaccio steso a terra, è San Michele arcangelo. Dietro il gruppo, e sotto l’arcata protettiva delle ali angeliche, si apre un ampio e arioso paesaggio collinare, pervaso di luce diffusa, mentre una luce più direzionata mette in evidenza le figure dei Santi indugiando in particolare sul corpo di San Sebastiano e sull’armatura metallica del San Michele, una luce che fluisce dall’alto e da destra, aumentando con un morbido gioco di ombre e brevi lumeggiature, il senso spaziale della sacra conversazione.
La decorazione continuava con Santi e profeti e una figura di Sant’Antonio, andati distrutti, e sulla parete della navata destra si può ancora intravedere un lacerto raffigurante la Carità di San Martino, santo titolare della Chiesa, e una Processione della Confraternita. Già sull’intradosso dell’arco che immette alla navata centrale si trovavano anche varie figure di Santi, di cui rimangono nei piedritti le figure di San Floriano e di Sant’Urbano, staccate e ricollocate a seguito dei lavori di restauro dopo il terremoto del 1976, mentre nell’intradosso sono ancora leggibili le figure di Santa Lucia e Sant’Apollonia.
IL MULINO DI AMPIANO
Poco fuori dall’abitato di Valeriano, in direzione Lestans, sorge il Mulino di Ampiano: documentato fin dal 1320, l’antico mulino del “Borgo del pian” posto sul Cosa, attuale borgo Ampiano, era in antico gestito dalla Confraternita dei Battuti di Valeriano, quindi passò in proprietà ai Savorgnan che lo affidarono alla stessa Confraternita a fini caritatevoli. Il mulino ospitava la lavorazione dell’orzo come ancora si può vedere nella sala della pila che costituisce la parte più antica dell’edificio, e in seguito del granoturco, frumento, castagne e carrube. Sopraelevato nel 1700, rimodernato verso il 1930 con l’installazione del mulino a rulli, venne dotato di una turbina che riforniva energia elettrica a una sega per legnami, al mulino da grano e per l’illuminazione del borgo “del pian”. Restaurato con fondi regionali (L.R. 30/1977) nel 2004, attualmente è sede di una cellula facente parte dell’Associazione Lis Aganis Ecomuseo delle Dolomiti friulane, ospitando con l’annesso spazio verde e attrezzato mostre e iniziative culturali e ricreative.
L’antica facciata, un tempo prospicente la strada, era affrescata con una Madonna col bambino tra angeli e devoti opera di Giovanni Antonio de Sacchis detto il Pordenone massimo pittore friulano del Rinascimento e attivo nelle Chiese di Valeriano e Pinzano tra il 1524 e il 1527, periodo durante il quale si colloca anche l’esecuzione dell’opera, giunta a noi non in buone condizioni conservative ma descritta dallo storico Fabio di Maniago nella sua Storia delle belle arti friulane, edita a Venezia nel 1819, come una Madonna tra quattro angeli, due a sostenere il mantello e due in atto di incoronarla, e ai suoi piedi un “copioso numero di devoti in bianco cappuccio” ovvero i membri della confraternita, contrassegnati dall’arma dei Savorgnan, il tutto racchiuso in una edicola architettonica. Tale descrizione e la monumentalità classicheggiante e avvolgente della Madonna rimandano al linguaggio figurativo espresso nell’affresco con la Madonna della Misericordia dipinta nella Chiesa di San Martino a Pinzano, anche per la puntuale ripresa fisionomica e per la posa del Bambino benedicente. Strappato dal muro nel 1957, l’affresco ora è tra le collezioni del Museo civico di Conegliano dove è esposto presso la Chiesa di S. Orsola, e dopo l’ampliamento ottocentesco del mulino verso la strada, all’interno é visibile a parete il residuo di strato pittorico rimanente dopo lo strappo, mentre la presenza del Pordenone in questo luogo è ricordata da un dipinto di Vittorio Basaglia (Venezia, 1936-Pinzano al Tagliamento, 2005) collocato in controfacciata (2002/3), che con un linguaggio dalla figurazione simbolica compone per frammenti allusivi un omaggio personale al mondo immaginifico del Pordenone, rivisitato attraverso la propria stessa esperienza artistica,
LESTANS, CHIESA DI SANTA MARIA MAGGIORE
Proseguendo sulle orme del Pordenone lungo la val Cosa, un ulteriore tappa della sua attività nel 1525, anno che lo vede attivo in loco, ci porta nel coro della chiesa di Santa Maria Maggiore a Lestans, la cui decorazione inizialmente era stata affidata all’artista che il 30 novembre del 1525 si impegnava con i camerari ad affrescare la “cuba” in cinque o sei anni. Tuttavia il Pordenone, preso da altre e più impegnative commissioni, passò l’incarico al suo allievo prediletto, da poco divenuto suo genero, Pomponio Amalteo (Motta di Livenza, 1505- 9 marzo 1588), che a distanza di una decina d’anni, nel 1535, affresca negli spicchi della volta e lungo le pareti episodi biblici, a partire dalla Creazione dell’uomo, e Profeti, Sibille, Evangelisti e Dottori della Chiesa, fino all’Incoronazione della Vergine nella parete centrale, composizione presumibilmente derivante da un disegno del Pordenone: si tratta infatti di un’iconografia che si distingue per l’inconsueta scelta di rappresentare la Madonna con la mano sinistra sovrapposta alla destra. Sulla parete sinistra la figura maestosa di re David musicante, introduce alle storie dell’antico testamento cui seguono le storie della Vergine: sempre sulla parete sinistra campeggia monumentale l’Ultima cena, che sarà d’ispirazione per il grande telero dipinto decenni dopo da Amalteo per il Duomo di Udine (1574), e i cui modelli non si riferiscono solo a Pordenone ma anche a Tiziano e a Bassano, mentre nel fregio con putti e festoni che corre sulla parete di fondo in alto, Amalteo si richiama ai repertori diffusi da Giovanni da Udine e in particolare alla sua decorazione all’interno del castello di Spilimbergo. Seguono la Preghiera nell’Orto di Getsemani, l’Ecce Homo, la Deposizione nel Sepolcro e la Resurrezione, mentre teorie di sante e santi corrono lungo gli arconi e i sottarchi, intercalati da un ricco apparato di grottesche.
Filiata da Santa Maria di Calaresio-Montereale, il più antico centro pastorale della zona settentrionale e montagnosa della Diocesi di Concordia, la pieve di Travesio, documentata nelle bolle di papa Alessandro III (1174), estendeva la sua giurisdizione sulla pieve di Santo Stefano di Valeriano e sulla pieve d’Asio, nonchè su tutta la zona collinare tra il Tagliamento e il fiume Meduna, fino allo spilimberghese. Prima del 1186 si staccarono, come documenta la bolla di papa Urbano III, le pievi d’Asio, di Valeriano, e in seguito si resero autonome (ante 1445) Spilimbergo e le altre pievi, ultima delle quali, Castelnovo (a. 1870).
La pieve venne eretta in posizione sopraelevata su un rialzo naturale oggetto di fortificazione, come attestava in antico la presenza di una torre campanaria tre-quattrocentesca con basamento a scarpa, che si ergeva sul piazzale antistante la chiesa, torre poi trasformata in campanile nel XVII. Colpito da un fumine nel 1882, il campanile venne ricostruito in stile neogotico a fianco della chiesa. La pieve venne riedificata nel Quattrocento, ampliata e rimaneggiata nel corso del XVIII sec., ed infine assunse nella metà dell’Ottocento l’attuale configurazione. La facciata è di gusto neopalladiano, con ampio timpano centrale, e vi si aprono tre portali scolpiti in pietra calcarea locale, di epoca diversa, decorati con motivi a candelabra: quelli laterali, ricchi di figurazioni simboliche di animali e vegetali a basso rilievo, sono ascrivibili al tardo cinquecento. L’interno, a tre navate con abside poligonale, volta a crociera cupoliforme in mattoni disposti a coltello, è qualificato dal più ampio intervento ad affresco realizzato dal Pordenone in terra friulana, da una pala del suo allievo Pomponio Amalteo, nonchè dagli interventi lapidei dello scultore Pilacorte.
L‘ ampio pavimento musivo (1857) scompartito geometricamente e arricchito nel presbiterio da motivi di carattere vegetale, classicheggianti, esemplifica al meglio la tradizione locale dei mosaicisti-terrazzai le cui radici riconducono a botteghe famigliari originarie di Solimbergo e Sequals. Ai lati della mensa dell’altar maggiore, le statue dei Ss. Pietro e Paolo sono uscite dalla storica bottega degli scultori Daniele, Giuseppe e Francesco Sabbadini, di Pinzano al Tagliamento (1750-1761).
Ricca era la dotazione di opere d’arte della pieve, e uno dei principali artefici del suo prestigio fu Pre’ Nicolò, il cui nome è inciso sulla porta che ora immette al solaio della sacrestia nonché nell’intradosso dello stipite di sinistra della chiesetta di Santa Maria di Zancan, il cui portale è opera del Pilacorte: diede infatti incarico a “maestro Polo da Venezia” di intagliare due ancone lignee, una delle quali per l’altar maggiore (1496-8) , mentre una terza ancona venne affidata a Leonardo Thanner, scultore ligneo di origine bavarese attivo in Friuli nel tardo XV sec., opere che immaginiamo ricche di statue dipinte e dorate, di gusto tardo gotico, e di cui si è persa traccia.
L’edificio quattrocentesco era ornato anche da un portale in pietra scolpito da Pilacorte nel 1484, come appare dalla dedicazione incisa sull’architrave “S.PETRO APOSTOLO SACRUM 1484”, portale ora trasferito all’interno e riutilizzato come ingresso alla sacrestia, alla fine della navata sinistra: si tratta della prima opera realizzata dallo scultore in terra friulana, all’epoca del suo approdo a Spilimbergo. I pilastri sono percorsi da una decorazione a candelabra e sul colmo è collocata a tutto tondo la statua del Padre Eterno benedicente con ai lati l’Angelo e Maria nell’Annunciazione, tutte opere scolpite con cura nel dettaglio, eleganza, che esprimono nei volti, finemente incorniciati da capigliature inanellate, e nei gesti, una dolce e composta espressività.
Per la pieve di Travesio Pilacorte scolpì verso il 1490 anche uno dei suoi più significativi fonti battesimali, imponente nella struttura, e con tracce del colore orginario, in parte mutilo e anch’esso come il campanile colpito da un fulmine nel 1882. Collocato come ogni fonte battesimale presso l’ingresso e dalla parte dove si legge il Vangelo, l’opera è siglata da Pilacorte sulla coppa con le sue iniziali e il suo monogramma a forma di triangolo, con al vertice la croce, tra raffinati decori vegetali, frutta, uccellini e un bucranio attraversato da un serpente, tutti simboli, come i putti sottostanti, di ispirazione classica e riferiti al tema della ri- nascita spirituale del cristiano dopo il Battesimo. La vasca, anch’essa percorsa nella sottocoppa da decorazioni a racemi in un raffinato bassorilievo, poggia su una singolare base triangolare, ai cui lati si dispongono tre angioletti musicanti alle prese con cembalo, flauto e liuto, comodamenti seduti sul risvolto delle foglie d’acanto che ricoprono il fusto: le loro morbide fattezze, le pose sciolte e i visi paffuti dolcemente espressivi, testimoniano al meglio l’abile scalpello dello scultore.
Qualche decennio più tradi, ritroviamo il nome di Pilacorte e quello del genero Donato Casella, all’epoca dimoranti a Pordenone e impegnati nella realizzazione del monumentale altare lapideo della pieve di San Martino d’Asio, tra i testi presenti all’accordo stipulato per la precisione “sopra il ponte della Cosa” tra i camerari e rettori della pieve di Travesio e Giovanni Antonio de’Sacchis detto il Pordenone il 26 giugno del 1526, accordo col quale l’artista si impegnava ad affrescare il coro ad un prezzo di “300 ducati di buon oro”, rateizzabili, in pratica con scadenza ad ogni natale, compenso che in parte era stato già anticipato al Pordenone nella prima fase del suo intervento, che risale ad almeno una decina d’anni prima.
Gli affreschi del Pordenone
Il più ampio ciclo ad affresco realizzato in Friuli da Pordenone si conserva proprio a Travesio, e potremmo definirlo quasi la sua “Cappella Sistina“ in quanto nella scansione a triangoli curvilinei delle lunette dell’abside l’artista sembra richiamarsi idealmente al capolavoro di Michelangelo, che probabilmente il Pordenone aveva appena ammirato dunrante il suo viaggio a Roma, e di fatto lo spazio del presbiterio presenta sette lati sormontati da due vele acuminate che includono ciascuna una lunetta e un ovato.
L’intervento decorativo dell’abside è stato realizzato in due fasi, la prima, riguardante la volta, nel 1516, la seconda, relativa alle pareti della “cuba”, intorno al 1525/6. Nella volta ci viene incontro trionfalmente Cristo Giudice, esprimendo tutta la “terribilità“ propria dell’arte matura del Pordenone, mentre l’Eterno Padre, irraggiante luce, scende sopra di lui, dall’alto, tra nugoli di angeli musicanti, preceduto dallo Spirito Santo sotto forma di una bianca colomba. Il mantello del Cristo è mosso da un vento impetuoso, e la sua figura nuda e possente domina lo spazio, mentre con la sinistra regge la croce astile e col braccio destro levato di tre quarti in scorcio indica il Padre Eterno: gli è accanto San Pietro, che fa il suo ingresso alla gloria celeste, prostrandosi al suo cospetto. Un ritmo centripeto dispone tutt’intorno alla figura del Cristo i Profeti, tra cui spicca la bella testa di Isaia, contraddistinto da un cartiglio col versetto “Ecce Deus vester, ecce Dominus Deus in fortitudine veniet et brachium eius donabitus Isaie Prophetae Cap. XXXX” (“Ecco il vostro Dio. Ecco il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio tutto ha sottomesso”), in un chiaro richiamo al braccio proteso del Cristo, e sempre con versetti che esaltano la meraviglia dell’apparizione si annunciano anche i profeti Abacuc e Gioele. L’ombelico del Cristo coincidente proprio col centro della volta, diventa il fulcro del moto circolare impresso all’intera composizione e il suo gesto, che ricorda il Portabandiera di Raffaello tramandato attraverso le incisioni di Marcantonio Raimondi, richiamandosi nella postura anche alla statuaria classica, sembra risucchiare a se tutte le figure fortemente scorciate nel “sotto in su”. Teste e fisionomie sono fortemente caratterizzate e nella tipologia le figure barbute come quella di Isaia presentano affinità con la bella testa di San Giuseppe dipinta dal Pordenone nella pala della Misericordia dipinta nel 1515 per il Duomo di Pordenone.
Negli spicchi sottostati la volta sono raffigurati episodi tratti dall’Antico Testamento: negli ovati, a partire da sinistra, Mosè che riceve le tavole della legge, Il sacrificio di Isacco, David e Golia, Giona rigettato dalla balena, La fuga di Loth da Sodoma, Giuditta e Oloferne, Sansone e Dalila. Nelle lunette La caduta di Simon Mago e sei scene della vita di San Pietro ( San Pietro condotto davanti al giudice, San Pietro in carcere, Quo vadis, la condanna, la crocefissione e le sue esequie) si susseguono in sequenza, tutti episodi inframezzati da ricchi apparati decorativi a grottesca, tra putti e satiri, motivi fito-zoomorfi, che sappiamo diventeranno la specialità dell’allievo prediletto del Pordenone, Pomponio Amalteo.
Completano la decorazione busti di Sante, le Virtù cardinali e teologali del sott’arco, sui cui piedritti sono raffigurati i santi Sebastiano e Rocco, e un’ampio repertorio di motivi a grottesche.
Nel coro, da sinistra, sono affrescate l’Adorazione dei Magi, l’Ultima Cena, la Pietà, la Conversione e il Martirio di San Paolo, scene ampie e complesse nell’articolazione, e parzialmente leggibili a causa di alterazioni dell’affresco a causa di infitrazioni dal terreno: si registra purtroppo anche la perdita dell’azzurrite, già stesa a corpo, che illuminava il fondo della cupola costellato da stelle dipinte in argento, mentre le aureole brillavano di oro, così come la croce astile e i manti delle vesti, secondo un’attenzione ai dettagli decorativi e luministici che caratterizza le opere mature del Pordenone, e che ritroviamo negli affreschi di Cremona e Piacenza.
Tra le scene più interessanti è la Decapitazione di San Paolo sia per la particolare tecnica pittorica, levigata e finitissima, in forza della polvere di marmo mescolata alla calcina e ai pigmenti, sia per l’efficace taglio prospettico, impostato su una veduta d‘angolo, che ambienta la scena sotto un arco classico, a mò di porta urbica, cogliendone l’azione con un fermo- immagine che fissa l’attenzione sulla spada sollevata e diagonalmente sospesa in aria: altrettanto complesse e spazialmente articolate le altre scene, animate da schiere di cavalieri, da scorci arditissimi di cavalli in tutte le pose, in una crescente tensione teatrale. Il finto telaio architettonico che racchiude le scene è ancora una volta pretesto per nuovi illusionismi pittorici, con i santi che sporgono dalle loro nicchie mentre una figura di nobiluomo in abiti contemporanei, identificato come un esponente dei giurisdicenti del luogo, i Savorgnan, trattenendo a stento il figlioletto abbracciato alla colonna, esce addirittura dallo spazio pittorico per affacciarsi ad assitere alla scena della Decollazione.
All’esterno della chiesa quattrocentesca il Pordenone aveva anche affrescato una monumentale figura di San Cristoforo, andata perduta con i rifacimenti successivi, che qualificava la facciata insieme al portale del Pilacorte, fissando nell’abbinata di decorazione pittorica e plastica, un nuovo modello rinascimentale di decorazione esterna che ebbe grande fortuna sul territorio.
Sopra il portale del Pilacorte è stata collocata la pala d’altare La Madonna col Bambino e i Santi Sebastiano, Rocco e Antonio abate (236 x 155 cm) dipinta da Pomponio Amalteo LINK BIO nel 1537, come si legge in cifre arabe nello spazio tra il baculo di S. Antonio e la gamba sinistra di S. Rocco: ambientata in un ampio paesaggio pedemontano, ricco di dettagli naturalistici, al di là dei consueti rimandi all’opera del Pordenone, come noto maestro dell’artista, evidenti nella posa del Sebastiano derivante dalla pala di S. Giovanni Elemosinario di Venezia, il dipinto raffigura al meglio l’attenzione per l’osservazione del vero propria dell’Amalteo, e segna un apice nella sua ritrattistica per la forte personalità della figura di San Rocco, avvolto in un mantello dai risvolti di vivacissima cromia, accanto alla sua bisaccia da viandante, una vera natura morta posata in primo piano, sotto lo sguardo dello spettatore, richiamando anche la nostra attenzione ai piedi diversamente calzati dei tre Santi.
Tra i dipinti che arricchiscono la chiesa anche San Francesco riceve le stimmate di Pietro Mera detto il Fiammingo (1615), la cui attenzione anche botanica al contesto paesaggistico rivela la formazione nordica dell’artista attivo a fine Cinquecento in ambito veneziano.
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