Vito d’Asio: Chiesa di San Michele

“Sulle prime alture delle Alpi Giulie verso settentrione del Friuli a destra delle rive del Tagliamento si vede locata in ameno sito fra poggi e colline, col monte Pala che le sovrasta, la Pieve d’Asio. Tre sono i villaggi principali che la compongono: Clauzetto, Vito e Anduins, posti in prospetto lungo la costiera del monte procedendo da ponente a levante. Si stende poscia in un ampio paesaggio a mezzodì con valli, colline e lunghe costiere in gran parte coltivate a vigneti, dove esistono Casiaco e Celante…
G. P. FABRICIO, La pieve d’ Asio (Clauzeto) [sic], in “Ce Fastu?”, XIV (1 marzo 1938), 30.

Le comunità della val d’Arzino in antico facevano parte della pieve di Asio, che durante l’alto Medioevo fino all’età moderna mantenne intatta la sua unità territoriale, mentre il suo pievano da sempre risiedeva, per comodità e maggiore vicinanza all’abitato, presso la sua più diretta filiale, la Chiesa di San Giacomo di Clauzetto. Il trasferimento della casa canonica e il cumulo delle due cariche, quella di pievano e quella di rettore della chiesa di san Giacomo, non fu bene accolta dalle altre comunità, innescando una controversia che provocò l’intervento del luogotenente e una sentenza del Doge, fino a che si giunse alla filiazione dalla pieve delle sue cappelle a partire da Vito d’Asio nel 1890, Anduins, Pielungo e Pradis nel 1891, Casiacco nel 1897 e infine San Francesco nel 1943.

Le prime notizie relative all’esistenza di una autonoma chiesa in quel di Vito, ovvero di San Michele, si riferiscono a un lascito del 1436, quindi di particolare importanza è una pergamena datata 20 aprile 1493, stesa da Giovanni detto l’Arbese, che eresse la pieve di Asio di cui fu poi pievano dal 1501 e che contemporaneamente stava anche ampliando la Chiesa di San Giacomo di Clauzetto, dove si documenta la necessità di lavori di riparazione e di ampliamento della chiesa stessa, dotata al tempo di un solo altare dedicato a San Michele e di una sola campana. Ottenuta la licenza dal vicario del vescovo di Concordia di erigere altri due altari, uno a S. Vito e uno a S.Gottardo, e di istituire anche una confraternita a dedicata a quest’ultimo, con il consenso all’unanimità di tutti gli abitanti di Vito, il giorno 11 marzo 1493 si diede inizio ai lavori. Dal 1502, un anno prima che venisse costruita la nuova pieve di San Martino, Vito ebbe un suo proprio cimitero sorto attorno alla chiesa di San Michele arcangelo, all’interno della quale i lavori si protrassero con interventi decorativi fin entro il secondo decennio del Cinquecento: come attesta un atto steso dal notaio Antonio Belloni di Udine, il celebre artista Giovanni Martini venne incaricato di intagliare e indorare per la chiesa un’ ancona lignea in sei scomparti con figure diverse, della quale si è persa traccia. Nel 1544 il nipote di pre’ Giovanni, il pievano Leonardo Fabricio, suo degno successore anche nelle imprese architettoniche e decorative, costruisce il battistero tutt’ora esistente e provvede alla campana piccola. Nel 1581 anche Vito d’Asio ebbe un cappellano stabile scelto dai fedeli, e nel 1584 il delegato del vescovo Cesare de Nores in visita pastorale troverà la chiesa fornita di eucarestia e fonte battesimale, oltre che dei già ricordati tre altari.

Il 21 ottobre 1611 la Chiesa di San Michele viene eretta curazia dal vescovo Matteo Sanudo, mentre sono ancora in corso gli interventi di decoro della chiesa: il curato Peverino costruisce nel 1625 la sacrestia e dota la chiesa di pulpito e opere pittoriche, e nel 1655 due angeli scolpiti da Alvise Fasten vengono collocati ai lati dell’altar maggiore per iniziativa del cameraro Antonio Sabbadino. Si aggiungono altri due altari, dedicati a S. Paolo e a S. Floriano, nuove suppellettili religiose, mentre nel 1687 vengono fuse in loco le campane poi sistemate nel campanile riedificato. Nel 1727 il vescovo Nicolò Erizzo benedice la campana maggiore, battezzandola “Maria Michele”. Nuovamente ampliata nel 1719, ripavimentata in pietra nel 1780, quando fu anche decorata ad affresco da Biagio Cestari, la Chiesa viene consacrata dal vescovo Fontanini il 24 settembre del 1828, epoca in cui così la descriveva nel 1854 monsignor Giovan Pietro Fabrici: “posta sulla cima del colle, ove giace disteso tutto il villaggio”. Ma i lavori continuano: nel 1858 viene collocato un organo di Valentino Zanin e nel 1869 le due sculture di Luigi Ferrari sopra l’altare maggiore al posto degli angeli in legno. Finalmente il 24 settembre 1890 viene eretta a parrocchia e distaccata dalla pieve di Asio: il primo parroco, dal 1894, Gabriele Cecco, anche dilettante nelle arti del disegno, seguì i lavori della facciata ultimata nel 1922, ideata dall’architetto Domenico Rupolo (Caneva di Sacile, 1861-1945), che qui ricorre al linguaggio classicistico proprio della sua militanza nel gusto eclettico e della sua pratica di restauratore, conservando il portale settecentesco. Gravemente danneggiata dal terremoto del 1976, con il crollo del soffitto e la perdita delle decorazione ad affresco, mandando in frantumi l’altar maggiore e decollando le due statue dei Santi laterali, dopo un lungo restauro è stata riaperta al culto nel 1989.

L’interno
A navata unica, scandita da lesene terminanti con capitelli lapidei, la chiesa è ornata da quattro altari laterali marmorei, mentre gli affreschi sono opera del modestissimo decoratore Biagio Cestari, originario di Osoppo e attivo come freschista e autore di pale verso metà Settecento in numerose chiese tra Veneto e Friuli. Perduto a causa del terremoto del 1976 il soffitto raffigurante la Caduta degli Angeli ribelli e le vele con gli Evangelisti nel coro, la decorazione parietale superstite è stata oggetto nel 1984 di stacco ed è quindi stata ricollocata nel coro dove la Presentazione al tempio e le Nozze di Cana inscenano composizioni di gusto barocchetto, ambiziose ma affastellate e scoordinate nel rapporto tra figura e scenografia. Il lampadario in vetro di Murano è stato donato nel 1895 dagli operai emigrati in Russia per la costruzione della transiberiana.

Entrando a sinistra si incontra il fonte battesimale, con copertura lignea settecentesca, contrassegnato su una delle quattro facce dello zoccolo dalla data “MDXLIIII” e dalla parte opposta la statua lignea di San Gottardo (XV sec.) è conservata in una nicchia sotto vetro.

L’altare maggiore dedicato a Sant’Antonio e ultimato nel 1796, è opera di Francesco Sabbadini, l’esponente più noto di una bottega famigliare di scalpellini e scultori di Pinzano al Tagliamento attiva lungo tutto il Settecento, che come altarista e scultore ha progettato ed eseguito varie opere per chiese friulane: tale era la sua fama e la quantità di commissioni che, vivente lui, nel paese di Pinzano si contavano ben dieci botteghe al suo servizio. L’impostazione architettonica dell’altare, di slancio verticale, è caratterizzata da quattro colonne tortili culminanti con un cupolino, coronato con la figura di Cristo risorto posto in cima alla cuspide, con richiami a modelli barocchi e in particolare al baldacchino di Bernini: gravemente danneggiato dal terremoto del 1976, è stato restaurato sotto la direzione della Soprintendenza tra il 1987 e il 1989. Le quattro formelle addossate alle estremità esterne della base recano figurazioni di vite maritata, realizzate in un morbido bassorilievo, di notevole qualità esecutiva, un evidente richiamo alla vigna del signore ma anche di certo alla viticoltura che all’epoca costituiva una delle principali fonti di reddito dell’economia locale. Il 28 novembre del 1869, al posto delle precedenti sculture lignee, vennero collocate le due statue San Michele arcangelo e San Vito martire ai lati dell’altare maggiore opera di Luigi Ferrari (Venezia, 1810-1894), titolare dal 1851 della cattedra di scultura presso l’Accademia di Venezia dove fu allievo di Luigi Zandomeneghi, scultore di formazione canoviana: all’epoca della loro esecuzione Ferrari si era da tempo svincolato dal gusto tardo-neoclassico in favore di tematiche di suggestione storica e letteraria facendosi interprete del nuovo gusto romantico, con riprese della tradizione toscana rinascimentale. Attivo non solo nel Veneto ma anche a Trieste e in Friuli, nello stesso a1869 ultimò anche le due statue con la Musica e la Drammatica per il teatro Imperiale di Vienna: la figura di San Vito è molto affine nella posa e nella tipologia alla statua di San Giusto scolpita nel 1859 da Ferrari per l’altare del santo alla cattedrale di Trieste, ora nella navata. La modellazione offre ampi piani alla luce che scorre sui panneggi, in una ricerca di sintesi astrattizzante evidente anche nelle fisionomie, esemplate da modelli cinquecenteschi. In occasione dell’inaugurazione l’abate Antonio Matscheg tenne una presentazione poi pubblicata col titolo “Religione e arte. Discorso letto nella solenne inaugurazione di due statue del prof. Luigi Ferrari rappresentanti San Vito martire e San Michele arcangelo nella Chiesa di Vito d’Asio il 28 novembre 1869”che oltre a ricordare il patriottismo dell’artista, ci informa che le due statue furono acquisite grazie a elargizioni promosse dal parroco Giacomo Pasqualis, dal parroco Leonardo Missana, dal sindaco Domenico Ciconi, dall’arciprete Giovanni Maria Fabricio, nonché dal curato Daniele Sabbadini, e che una festosa cerimonia, con tanto di banda venuta da San Daniele e grande adunanza di fedeli, accompagnò, alla presenza dell’Artista, la consacrazione delle statue “ai lati del magnifico altare maggiore” .

I quattro altari dell’aula sono anch’essi di notevole qualità: tre provengono da chiese soppresse veneziane, tra cui l’altare di San Gottardo donato nel 1822 da don Ceconi già curato di S. Salvatore a Venezia: di fattura veneziana settecentesca affine ai modi di Giovanni Trognon, si segnala per il paliotto raffigurante l’Annunciazione con giustacuore a intarsio di marmi e madreperla, e forse ospitava in precedenza la scultura lignea del santo ora collocata all’ingresso, la cui devozione in loco è testimoniata dalla Confraternita attiva dal 1493. Don Gabriele Cecco, parroco di Vito d’Asio dal 1894, è l’ autore dalla pala odierna con i SS. Gottardo, Vincenzo Ferreri e Luigi Gonzaga, ma la nicchia in origine ospitava due opere, nella parte superiore un dipinto di Marianna Pascoli Angeli con San Luigi Gonzaga e San Vincenzo Ferreri, nella parte inferiore unapala marmorea con bassorilievo raffigurante San Gottardo.
Lungo la navata sinistra, nell’altare dedicato a S. Antonio, caratterizzato da quattro colonne in marmo nero, si conserva la pala di Marianna Pascoli Angeli (Monfalcone, 1790-1846) Madonna addolorata e Santi, databile circa al terzo decennio dell’Ottocento (olio su tela, cm. 254×112). La Madonna è assisa in cielo, e in primo piano da sinistra i Santi Pietro, Giovanni Battista e Sant’Antonio, in una composizione che rimanda modelli cinquecenteschi, come evidente nella ripresa da Tiziano della figura del Battista, in linea con l’impostazione accademica caratterizzante la formazione della pittrice avvenuta con la guida di Teodoro Matteini a Venezia. Di origine carnica, dopo un apprendistato tra Udine, Trieste, Bologna, Marianna Pascoli fu tra le prime donne ad iscriversi all’Accademia di Belle Arti a Venezia divenendo una stimata ritrattista, e per la cronaca la sua fama si legò a quella di Canova di cui fu anche allieva nel 1818 frequentandone lo studio romano. Attiva dal 1820 a Venezia, dove ricevette importanti commissioni per copie dall’antico e in particolare dai maestri del Cinquecento veneto, e dove realizzò molte pale d’altare per importanti Chiese veneziane, come San Felice, San Cassiano, l’Oratorio del Seminario Patriarcale alla Salute, e questa di Vito d’Asio è l’unica pala di mano di una pittrice nella storia artistica del nostro territorio. Altri dipinti della Pascoli si conservano tra le collezioni dei Musei di Udine e Padova, e altre due opere di tema sacro raffiguranti San Giuseppe col Bambino e la Vergine col Bambino sono documentate presso la chiesa parrocchiale di Majaso.

Lungo la navata destra, il secondo altare conserva un’importante pala di Odorico Politi (Udine, 1785-Venezia, 1846) Madonna del Rosario (1835), (olio su tela, cm. 240×130), come ricorda l’iscrizione sottostante“ Dono di Mattia Sabbadini Parroco degnissimo di Provesano 1838”. L’opera collocata l’11 ottobre 1835, si relaziona con la devozione della Confraternita del Rosario, documentata in loco a partire dal 1642. Sia la Madonna che il Bambino reggono il Rosario, circondati e sorretti da angioletti che sbucano tra le nubi, uno dei quali reggente un serto di rose, mentre San Michele tiene incatenato un demonio dalle sembianze femminili, che occhieggia, avvolto dall’ ombra, sotto la nube su cui poggiano i piedi nudi della Madonna, ad alludere all’Immacolata Concezione. La luminosità della tavolozza, dal vivace cromatismo, la tipologia dei volti dai morbidi incarnati e l’impostazione monumentale della composizione, con la Vergine avvolta da ampi e morbidi panneggi di gusto classicheggiante, raffaellesco, rimandano alla migliore produzione matura dell’artista, la cui famiglia era originaria di Clauzetto, e che nel 1824 aveva donato la pala con San Giovanni Battista per la Chiesa di San Giacomo di Clauzetto. Celebrata come un capolavoro per morbidezza delle tinte, la correzione del disegno, oltre che per il concetto” sulla “Gazzetta di Venezia” del 1835, l’opera si affianca, tra i dipinti religiosi di Politi conservati in Friuli, per affinità pittoriche e tipologiche alla Madonna col Bambino della Chiesa della Natività nel Felettano. Uno studio del dipinto (olio su tela, cm. 29,2×18), caratterizzato dal reticolo per il riporto, si conserva presso la Pinacoteca dei civici Musei di Udine.

Il primo altare al lato destro entrando è dedicato alla Beata Vergine della Cintura, e la pala di Giuseppe Vizzotto Alberti (Oderzo, 1862-Venezia, 1931)Madonna con Bambino tra i Santi Floriano, Agostino e Monica (1903) (olio su tela, 250×110), recante l’iscrizione in basso “G. Vizzotto Alberti, 1903”, in realtà venne commissionata a Luigi Nono, che però declinò l’invito, e quindi assegnata al suo compagno di studi presso l’Accademia di Venezia, dove Vizzotto Alberti si formò dal 1881 al 1886. Appartenente a una famiglia di restauratori e pittori, esordì come pittore di figura con accenti narrativi e attento studio del vero, anche negli effetti di luce. Nella sua opera a cavalletto prevalgono i paesaggi e le scene di genere, influenzate dall’opera di Guglielmo Ciardi e di Luigi Nono, e questa pala si colloca come un unicum, anche se non è il solo di tema religioso, basti pensare al ciclo ad affresco di S. Maria dei Miracoli a Motta di Livenza (1889), rivelando modelli neo-cinquecenteschi nella sacra conservazione sotto un baldacchino e serti vegetali, qui ispirata a modelli di gusto neo-rinascimentale e in particolare alla Madonna con Bambino, avvolta in un lucente manto bianco, del pittore tardo romantico Nicolò Barabino, che ebbe una particolare fortuna grazie alla diffusione tramite stampa.
La Madonna della “cintura” è ispirata dall’omonima confraternita attiva dal 1732 a Vito d’Asio, ed è affiancata da S. Agostino inginocchiato davanti alla madre, S. Monica, e da S. Floriano reggente la Croce, anch’egli ispiratore di una Confraternita attiva in loco dal 1653. Le fonti documentano anche l’esistenza di una precedente pala con la Madonna della cintura, con i Santi Monica Agostino, Floreano e Fortunato, di Giuseppe Buzzi (1683-1769) ora conservato in sacrestia insieme ad altri dipinti, tra cui un’Annunciazione, di scuola austriaca (metà XVIII), il Martirio di San Paolo e la Madonna con Bambino in gloria tra due Santi, opera secentesca attribuibile al venzonese Lucillo Candido, un Ritratto di vescovo, del 1767, dono della famiglia Sabbadini, un affresco devozionale staccato da una casa a Triviat (inizio XVII) raffigurante Madonna col Bambino e Santi, e un Interno della Chiesa di S. Martino d’Asio dipinto da Gabriele Cecco.

Di particolare rilievo il Mobile da sacrestia con alzata, con cartelle in radica di noce, opera di uno stipettaio gemonese, dal gusto affine a coeve produzioni cadorine: sul retro dell’alzata è dipinto il monogramma “CC” e sul retro della base la scritta a lettere cubitali “C.B.B.F./G.A.F./Gemona 1736 (o 38)”. Presenta cinque portelle con figure a intarsio, al centro la Madonna della Cintura affiancata da San Gottardo a destra e da San Michele arcangelo a sinistra, mentre altre due figure allegoriche femminili completano la decorazione. La parte sottostante è invece contrassegnata da scene a intarsio con composizioni floreali, contraddistinte dalla presenza dei tulipani, raro esempio del gusto per questo elemento.

Hortus Librorum
Presso la ricostruita canonica si conserva l’antica biblioteca della Chiesa di S. Michele, catalogata, in parte restaurata e consultabile al pubblico dal 1996 grazie all’associazione di volontari che la gestisce e che organizza corsi e varie attività attinenti al libro: ricca di incunaboli e di preziose edizioni d’argomento storico, religioso, ma anche scientifico e filosofico, è frutto soprattutto degli studi e di donazioni di monsignor Leonardo Zannier (Anduins,1849-1935) cultore di storia locale, curato della pieve di Asio e docente a Portogruaro, ma anche attivo e benemerito nell’azione sociale. (hortuslibrorumvito@gmail.comtelefono 0427.80178 (ore pasti).

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