Un’antica simbologia: ricordati di santificare la festa

Giovanni Antonio Pilacorte fu molto attivo nel territorio soggetto alla pieve di Codroipo, e sono legioni di putti e cherubini che spesso occhieggiano facendo smorfie e sorrisi di complicità sparsi nella molteplicità dei suoi portali, nella Chiesa del cimitero di Sedegliano (1497) a Flaibano, (1506) all’interno della Chiesa di Ognissanti a Camino al Tagliamento (c. 1507) Turrida (1516), Goricizza (1525), e in molte altre Chiese, riproponendo un’analoga impostazione con continue varianti compositive. Sue opere si conservano nella chiesa di Gradisca di Sedegliano, dove un portale arricchito da una lunetta (1515) raffigurante un’animata scena illustrante la lapidazione di Santo Stefano, vede l’artista passare con disinvoltura, per dare ariosità alla scena, dal bassorilievo alla tecnica donatelliana dello “stiacciato”, di un sottile linearismo. Sempre a Gradisca di Sedegliano, nella chiesa di San Giorgio, si conserva un’acquasantiera (1515), mentre puttini musicanti si rincorrono nel fonte battesimale (usato oggi come acquasantiera) della Chiesa parrocchiale di S. Martino di Beano (1519). per la quale scolpì anche il portale, e nella chiesa di s. Andrea ap. a Grions di Sedegliano, il cui fonte battesimale rivela strette analogie strutturali con quello di santa Giuliana a Coderno.

Pilacorte è anche capace di improvvisi inaspettati scarti e invenzioni, come nel fonte battesimale per la Chiesa di S. Lorenzo di Sedegliano, impostato secondo una tipologia rinascimentale consueta a Pilacorte, con vasca sorretta da un rocco di colonna, tra teste di puttini angolari, poggia su un cubo quadrato su una delle cui facce in elegante bassorilievo sono scolpiti i profili di un bue e attrezzi agricoli, distribuiti e sparsi nello spazio con libertà ed efficace effetto decorativo. Si tratta di una serie di figurazioni caratterizzate dalla presenza di un bue andante dove spicca nel primo piano un aratro, accanto a un’ascia, a una zucca all’estrema sinistra, mentre poco sopra si profila un contenitore e in alto a sinistra un’accetta, e nel registro superiore a sinistra una forca è incisa accanto a un erpice in prospettiva. Animale e strumenti rimandano dunque alle attività legate all’agricoltura, e documentano per il piacere dello studioso e dell’etnografo gli attrezzi del contadino nel primo cinquecento, di certo osservati dal vero

Tale iconografia viene rielaborata nello stesso anno (1503) nel fonte battesimale ora usato come acquasantiera della Chiesa di S. Giuliana a Coderno. Questo fonte è composto da una coppa scanalata, sorretta da un rocco di colonna percorso da scanalature rudentate, e poggiante su un plinto a forma di parallelepipedo a base quadrata a sua volta collocato, anziché su un gradino, su un coppa rovesciata, anch’essa scanalata e contornata da un fregio a ovoli che fa ipotizzare, come in molti casi relativi allo smembramento di altari e parti architettoniche, un assemblaggio di più elementi diversi oltre che il suo spostamento da quella che per tradizione era la sua collocazione in virtù del rito battesimale, ex cornu Evangelii. Su due delle quattro facce del plinto sono incisi motivi fitomorfi con racemi a girali, uno con l’aggiunta del profilo di un uccello, mentre sulle altre due facce contigue appaiono due diverse sequenze di strumenti da lavoro. In una di queste si dispongono, galleggiando nello spazio, vari attrezzi agricoli: in primo piano un giogo, due ruote che ci rimandano a un avantreno per aratri, un rastrello, due falci di diversa misura, una “massanghetta” per la potatura accanto a un’accetta, e ancora una volta il profilo in prospettiva di un erpice. Sull’altra faccia l’ attrezzeria ci indica invece la fucina del fabbro e del maniscalco: mantice, incudine e martello in primo piano, due tipi di tenaglie, ferri da cavallo e da asino, chiodi e cunei, un secondo martello e altri strumenti non meglio identificati. Tale repertorio è attraversato e scandito in verticale da sei incavi ovoidali tra loro raccordati da una sottile linea continua che ripropongono in negativo il motivo a ovoli della fascia che corre che corre lungo la base, assimilabili a sei tacche di una sorta di pallottoliere verticale, a contare, uno dopo l’altro, in fila, i giorni della settimana e del lavoro, e soprattutto a suggellare e chiarire l’insolita iconografia qui proposta da Pilacorte e per quel che ci consta per la prima volta, riferibile all’osservanza del precetto festivo, ovvero una versione aggiornata e rivista del cosiddetto “Cristo della Domenica” usualmente proposto attraverso l’affresco. Si tratta di un’iconografia di retaggio medioevale, abolita dal Concilio di Trento e radicata in una cultura di carattere popolare che in Friuli è documentata da un raro affresco presso la Chiesa di Santa Maria dell’Ospedale a Pordenone, attuale Chiesa del Cristo, che sicuramente Pilacorte conosceva, ovvero il Cristo della Domenica (fine XIV sec.), un lacerto staccato, restaurato e sistemato su un pannello nel 1980, ora addossato alla parete sinistra dell’edificio, riscoperto nel 1967 durante il restauro del ciclo di affreschi di ascendenza vitalesca della chiesa di Santa Maria degli Angeli della Confraternita dei Battuti.

La figura frontale e statica del Cristo, circondata da attrezzi e simboli delle varie attività umane, si offre come un icona alla meditazione, e la raffigurazione si collega ad analoghi e più completi esempi tra cui il Cristo della Domenica affrescato nella poco lontana pieve di S. Pietro di Feletto presso Conegliano, zona contigua anche culturalmente al Friuli occidentale, aventi la funzione di comunicare con efficacia il precetto del riposo festivo attraverso raffigurazioni del Cristo martoriato non solo dagli strumenti tradizionali della sua passione (arma Christi), ma anche, e una seconda volta, offeso dagli strumenti del lavoro quotidiano, nella cui descrizione il pittore indugia con dovizia di particolari, spaziando dagli oggetti a lama, dagli strumenti delle varie arti, ai simboli del peccato e dei vizi. Quanto al Cristo pordenonese questo risulta però mancante di gran parte degli strumenti che lo circondavano in origine, e di cui rimane solo qualche presenza ancora leggibile: coltelli, mannaie, ruote, una cazzuola, un vaso, una treccia bionda. Si tratta di una iconografia che scompare dopo l’emanazione, a seguito del Concilio di Trento, di più precise disposizioni in merito all’iconografia sacra (1582), a conseguenza delle quali,come nel caso dell’esempio pordenonese, gran parte di queste raffigurazioni vennero ricoperte e presto dimenticate.

Nell’ interpretazione del Cristo della Domenica del Pilacorte tuttavia è sparita l’immagine del Cristo, a segnare un ulteriore scarto inventivo rispetto all’iconografia tradizionale: solo pochi anni dopo, nel 1511, però l’artista scolpirà nella lunetta del portale del Duomo di Pordenone l’immagine del Christus Chronocrator, il reggitore del tempo, non però trionfante e in maestà come più frequentemente appare nei portali quattrocenteschi, ma sofferente, un Cristo Passo che si offre come Imago Pietatis esattamente come il Cristo della Domenica. Sceso nel mondo, Cristo riscattando con la sua morte l’umanità, ora presiede la liturgia cosmica emanando, come nel settimo giorno della sua Resurrezione, e come ci indica l’originale policromia della lunetta, pura luce: alla base del portale infatti sono raffigurati i sei giorni della creazione scolpiti sui plinti, concentrati in quattro episodi, mentre lungo i pilastri percorsi da candelabre si passa alla successione alternata e in sequenza, da uno stipite all’altro, dei dodici mesi dell’anno a partire dall’equinozio di primavera, ricorrendo all’allegorismo delle stagioni, ai segni zodiacali, coniugando mondo classico e mondo medioevale, come nella scena del contadino in coppia con l’acquario, debitrice dell’analoga formella per il Battistero di Parma scolpita da un grande maestro comacino come l’Antelami, che impugna uno di quegli strumenti già sottilmente delineati in punta di scalpello alla base dei fonti battesimali di Sedegliano e Coderno. E anche in questo caso si tratta di un unicum iconografico nel quale Pilacorte ricorre a un allegorismo colto, originale, a tratti ancora criptico, che pesca nel suo immaginario pronto a prendere il volo a margine delle iconografie tradizionali, negli spazi lasciati liberi alla sua fantasia creativa.