L’altare del Pilacorte nella Pieve di San Martino

L’altare maggiore è dominata dalla monumentale ancona lapidea di Giovanni Antonio da Carona, detto il Pilacorte. Dopo la realizzazione di un’ancona in pietra per la Chiesa di San Giacomo a Clauzetto, ultimata nel 1523, Pilacorte scolpisce per la pieve il suo più impegnativo altare lapideo e anche il più ampio e monumentale presente in Friuli: l’opera appartiene all’ultima produzione di Pilacorte, il più noto scultore in pietra del rinascimento attivo in regione, che lo realizzò tra il 1525 e il 1528, in età avanzata, essendo nato intorno al 1455 a Carona, sul lago di Lugano, luogo di provenienza di moltissime famiglie di lapicidi. Si era stabilito a Spilimbergo con la sua famiglia, la moglie Perina, figlia di Orlando di Franchina da Carona e la figlia Anna, che andrà in sposa a Donato Casella, suo collaboratore. Rimasto vedovo, Pilacorte si trasferì a casa della figlia e del genero a Pordenone fino alla fine dei suoi giorni, nel 1531, dimorando per l’esecuzione dell’altare per un periodo a Travesio.

Sul fianco sinistro dell’altare compare l’iscrizione attestante l’inizio lavori “MDXXV. Tempore./DomiNo Pres BiteRO IOAnnI/ARBEnse “, mentre sul piedistallo sottostante il gruppo di San Martino si legge l’iscrizione “T. PETRO. SIMONIS. CAMERArIO/IOANE. ANTOnIO/CAROnEnSIS. SCULPTORE. Fecit”. Infine, sul piedistallo sottostante le sculture dei Santi Giacomo e Maddalena:“MDXXVIII. PresBiteRO. IOAnnE. ARBEnSE. PLEBAnO/AUCTOrE. ECCLEsiae. AT. Que. STATU. LAPIDAE”. Dopo l’intervento da parte della Soprintendenza conseguente ai danni subiti dal terremoto del 1976, che aveva anche provocato la caduta delle formella con i Santi Nicolò e Michele arcangelo e delle figure del coronamento, l’altare è stato ancorato dal punto di vista statico al pavimento sostenendolo con una struttura di acciaio.
La dimensione architettonica e monumentale dell’altare, a doppio ordine con coronamento raccordato da volute a un timpano, rimanda nella composizione alle soluzioni adottate da Pietro Lombardo per la facciata del Duomo di Cividale, ben nota a Pilacorte che nel 1503 risulta proprio impegnato in tale impresa, e si collega come antecedente, all’altare realizzato in dimensione più domestica per la Chiesa parrocchiale di Villanova di Pordenone, firmato e datato 1520, secondo una tipologia che verrà ripresa a Lavariano dallo stretto collaboratore di Pilacorte, Carlo da Carona.
L’opera venne arricchita nel 1563, per volontà del pievano Leonardo Fabricio, da un intervento di doratura a bolo e da policromia, secondo il modello in auge nella scultura lignea locale, presto alterata e persa, fino ad assumere nei volti per lungo tempo una coloritura bruno-plumbea. La scultura, recentemente sottoposta a pulitura (2016), conserva infatti ancora tracce della preparazione a bolo e la policromia in particolare degli incarnati, in origine bianchi e rosati, in parte oggetto di ritocchi.
Frequente infatti, soprattutto per affrontare la concorrenza di botteghe di intagliatori come quelle dei Martini e dei Tironi, i cui altari erano rutilanti di oro e vivacizzati da accese cromie, il ricorso al colore anche nella stessa opera matura di Pilacorte e soprattutto in quella della sua scuola: di fatto in questa impresa di certo l’artista è affiancato da stretti collaboratori tra cui il genero Donato Casella, col quale da tempo viveva a Pordenone.

Le figure dell’altare sono disposte su due piani entro nicchie divise da pilastrini: al centro troneggia la Madonna col Bambino, titolare della pieve e di scala maggiore rispetto alle altre figure, con lo stemma dei giurisdicenti Savorgnan alla base del suo trono. A sinistra si dispone il gruppo con San Martino a cavallo e il povero, e a destra i Santi Giacomo apostolo, titolare di Clauzetto, con il cappello recante la conchiglia modellato a basso rilievo sullo sfondo, quasi sospeso dietro la sua testa, affiancato da Maria Maddalena, dalla lunga e inanellata capigliatura, che regge il vaso degli unguenti; a una visione ravvicinata questa teoria di figure mostra un intaglio di raffinata eleganza e sicurezza linearistica, come nella traccia dell’arco delle sopracciglia, una ricercatezza nei vestiti e negli ornamenti, e dettagli fisionomici sorprendenti, come le bocche semiaperte e parlanti del povero o del diavoletto. Nella fascia superiore, al centro si colloca la natività e a sinistra tre figure, S. Giovanni Battista, S. Margherita, titolare di Anduins e S. Caterina con la ruota, titolare del canale d’Arzino; a sinistra San Michele Arcangelo, titolare di Vito d’Asio, e San Nicolo titolare di Castelnovo. Sulla cimasa infine è raffigurata la Crocefissione, ambientata in una ampio paesaggio tra torri e campanili, il tutto sormontato da un timpano di proporzioni ridotte con l’Eterno Padre benedicente, e .ai lati si dispone l’ Annunciazione. Da rilevare l’efficace resa spaziale della scena con la Crocefissione, ai cui estremi si dispongono due città, una murata e ricca di torri, l’altra con una chiesa e un alto svettante campanile che ricorda quello di Pordenone, con l’antica copertura a pigna, versione contemporanea della Gerusalemme celeste. Il basamento, percorso da una elegantissima decorazione a girali con tralci vegetali in bassorilievo, reca al centro il tabernacolo tra due cherubini simmetrici inginocchiati e oranti; lo stesso motivo ornamentale, in altezza minore e con una ritmica più concitata nei girali, percorre la trabeazione intermedia, punteggiata da fenici ad ali spiegate, mentre quella alta è scandita dalle testine alate delle schiere di cherubini che Pilacorte dissemina come sua personale sigla in gran parte delle sue opere e in molti portali; pilastrini privi di base ma ricchi di variegati capitelli reggono l’insieme. Da notare, sui capitelli ai lati della Madonna a sinistra lo stemma del biscione visconteo e dalla parte opposta un’altra figura araldica, simile a un grifone armato di lancia, mentre nel cavo della nicchia a sinistra compare una forma simile a un doppio cuore trafitto.

L’articolazione delle partiture mostra nel progressivo ribassarsi degli spazi la preoccupazione di una visione prospettica dal basso, non senza palesi ingenuità nella compressione progressiva delle figure, ridotte a mezzo busto nella fascia mediana. La statuaria emerge morbidamente alla luce nel trattamento plastico: ampia e monumentale la figura della Madonna, dai panneggi fluenti e avvolgenti, a pieghe parallele, e dall’insistito grafismo nell’ondulazione della capigliatura; popolaresco e narrativo il tono della scena con la carità di San Martino, mentre i santi sul lato opposto sembrano accennare un passo in avanti in una ricerca di dinamismo, carattere che si lega all’ultima produzione di Pilacorte e che si accentua nello stile del genero Donato Casella. Attentamente studiate sono le fisionomie e i volti e la gestualità come nelle braccia aperte della Madonna adorante nella natività, scena caratterizzata dall’accenno a una stuoia che delimita lo spazio della mangiatoia.

Gli apparati decorativi che corrono lungo le architravi e i pilastri presentano una raffinata esecuzione, in particolare nella morbidezza plastica dei motivi vegetali, dall’abile sottosquadro che modella in particolare la base dell’altare; anche lateralmente tale apparato è godibile nell’articolarsi dei motivi che danno forma a figurazioni di geniale invenzione, tutta propria del maestro. Sul fianco destro e alla base dell’altare, una figura di natura ambigua e metamorfica, in parte uomo ma anche animale e vegetale, con un curioso copricapo a petali, regge la maschera di un uomo anziano e barbuto dalla cui bocca spunta un racemo, che forse potrebbe indicarci un autoritratto del Pilacorte, assomigliando a un’analoga testina barbuta scolpita in un capitello che decora la balaustra di destra della Cappella del Carmine in Duomo a Spilimbergo. L’insieme di racemi, uccellini, elementi repertoriali della decorazione a candelabra, qui dunque si evolve secondo la modalità della grottesca, alludendo a una natura dionisiaca e popolata da esseri fantastici, demoni, mascheroni, simboli di una paganità asservita al potere divino, nella cui invenzione Pilacorte sicuramente da il meglio come artista libero di attingere e interpretare repertori classici e rinascimentali senza alcun condizionamento, riannodando il filo delle sue fantasie già ampiamente e liberamente dipanate nel Duomo di Spilimbergo. Alla sua morte, per devozione alla pieve e riconoscenza ai suoi camerari, Pilacorte offrì un lascito per celebrare, alla vigilia di San Martino, una messa di suffragio per se e per la moglie Perina, come scritto nel suo testamento.

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