La Pieve di San Martino d’Asio

La Chiesa di S. Martino sorge alle radici del monte Asio sopra un poggio eminente di poca ampiezza, il quale si scoscende all’intorno in burroni di massi enormi quasi a perpendicolo, ma da cui l’occhio si ricrea nella vista deliziosa delle valli sottoposte, e delle colline offerenti bella varietà di vigneti, di campi seminati, di prati, di boschetti rigogliosi della più prospera vegetazione, e, più oltre, nel magnifico panorama offerto dalla estesa pianura del Friuli, dal maestoso letto del Tagliamento, e dai minori torrenti, l’Arzino, il Cosa, il Meduna, il Cellina, e giù giù in quella immensa fascia lucida che è il mare Adriatico.
(L.Pognici, Guida Spilimbergo e il suo distretto, Pordenone 1872, p. 425, 426)
Percorrendo un sentiero che collegava in antico Clauzetto a Vito d’Asio, lungo il declivio meridionale del monte Pala, tra resti di antichi muretti in pietra e boschi, si giunge all’antica Pieve di San Martino, più o meno in un contesto immutato nel tempo: è un paesaggio contrassegnato da massi, frane, come quella storica del 1914, fitti arbusti e improvvise aperture panoramiche, lontani almeno mezz’ora a piedi dai centri abitati, in una beata solitudine, raggiungibile con prudenza anche in macchina.

Una serie di campagne di scavo avviate nel 1990, e condotte dall’Università di Udine, ha permesso di far riemergere le strutture preesistenti all’attuale edificio, visibili sul retro, e documentate nella tabellazione annessa da grafici e planimetrie: la costruzione più antica, collocabile in ambito altomedioevale, forse carolingio ( IX -X sec.), presenta le fondamenta di un’ aula a pianta rettangolare (6.50 ca. x 13 m.) con abside semicircolare a est, profonda 2 metri, e altare a blocco unico con mensa. Ampliato nel corso dei secoli in parallelo alla crescita d’importanza della pieve, l’edificio subì la riedificazione dell’abside sostituita con una forma rettangolare nella seconda metà del XIV secolo, e le indagini archeologiche hanno evidenziato la presenza di un altare principale a blocco in grossi conci legati a malta, preceduto da una pedana in pietra arenaria, e di altri altarini laterali: tale costruzione era forse dotata anche, come del resto l’attuale, di portico antistante, mentre numerose tracce di intonaco attestano un’ampia decorazione ad affresco dell’interno. Sepolture di epoche diverse e comunque di età medievale, compongono l’annessa area cimiteriale esterna agli edifici, inizialmente insistente a ridosso dell’abside semicircolare e quindi a sud di quella rettangolare, con minimi corredi funebri, tra cui frammenti di ceramici, numismatici, metallici, a comporre un cimitero il cui utilizzo durò fino agli inizi del Cinquecento, quando in seguito le comunità di Clauzetto e di Vito d’Asio provvidero autonomamente alle loro sepolture.

Nel 1503 da Magister Gregorio de Zeglia, cosiddetto probabilmente dalla sua provenienza, ovvero Zeglia, parte dell’attuale Carinzia, costruì la nuova chiesa raddoppiandone la dimensione rispetto alle costruzioni precedenti, e utilizzando materiale anche di recupero dal precedente smantellamento. L’iniziativa partì dall’intraprendente pievano Giovanni Fabbro detto l’Arbese (1501-1530) ovviamente sotto l’egida di Antonio Savorgnan al tempo giurisdicente del luogo, e secondo quanto ricordato dal Catapano, l’edificazione si sarebbe realizzata in un solo anno “senza incidenti né di omini né di animali” come qui di seguito specificato: “1503: Die sexto mensis aprilis condita fuit ecclesia Sancti Martini plebis Asii a magistro Gregorio de Zeglia, me presbytero Johanne de Arba, magnifico domino Antonio Savorgnano, et completa fuit ante annum absque ullo minimo periculo tam in Christianis quam de animalibus”. In realtà i lavori di stabilitura e di ornamento si protrassero fino al 1528 come documenta anche l’iscrizione dell’altar maggiore “MDXXVIII Presbitero Ioanne Arbese plebano auctore Ecclesiae atque statuae lapidae”. Il 28 gennaio del 1526, suo nipote e aiutante Leonardo Fabricio che gli successe nel pievanato (1530-1563) vi celebrò la sua prima messa con la partecipazione di duemila fedeli sul lato destro della chiesa, e con circa mille settecento persone “al primo desinar”, particolare che fa supporre che il coro dunque non fosse ancora completato: solo nel 1533 per opera dei maestri di Maniago Giovanni e il padre Francesco de Candido vennero collocati gli stalli del coro, offrendo il pievano Fabrici tutto il legname. In tale occasione lo stesso pievano acquistò a Venezia i gonfaloni per tutte le chiese della pieve. In seguito i banchi vennero sostituiti dal pievano Ceconi nel 1653, anno in cui fu anche fabbricata la sacrestia alla destra dell’altare, come ricorda l’ iscrizione sull’architrave della porta ora murata, e furono rinnovati nuovamente nel 1852. Mille anime contava la Parrocchiale nel 1584 quando fu vi si recò Cesare de Nores, in qualità di visitatore apostolico della Diocesi di Concordia: in tale occasione vennero contati ben cinque altari, due dedicati a S. Martino, due alla Beata Vergine, e uno a San Rocco, e venne data disposizione di rimuovere i due altari ai lati dell’abside-disposizione in realtà a cui non fu poi dato seguito- e di dotare i rimanenti di adeguata suppellettile. In occasioni delle visite seguenti, fu ordinata nel 1593 dal vescovo Matteo Sanudo l’imbiancatura, una copertura per il fonte battesimale e successivamente venne rifatto il tetto e aggiunta l’abside. Come attesta la data 1698 che si scorge sul lato destro della mensa, l’altar maggiore venne ampliato inglobando quello precedente, in parte ancora esistente sotto le superfetazioni lapidee.

La Pieve ha subito il furto di un importante crocefisso ligneo cinquecentesco, per il quale sappiamo che nell’agosto del 1578 Toniati Candido quondam Antonio lasciava cinque ducati per la pieve, opera ricordata anche nel 1653 tra le descrizioni della visita del vescovo Benedetto Capello. Sono andate perse e asportate inoltre parti decorative e sculture relative agli altari lignei, una Via Crucis ed è stata rimossa la copertura lignea del fonte battesimale ora collocata nella Chiesa di San Giacomo di Clauzetto.

Con decreto del vescovo Alvise Gabrieli la Chiesa fu dichiarata nel 1771 arcipretale in virtù della nomina a pievano del canonista Giovanni Politi, ma da tempo le visite registrano il degrado dell’edificio, degli altari e in particolare di quello dedicato alla Madonna: ormai nell’antica pieve non si celebravano che le funzioni della settimana santa. Nel frattempo, per comodità dei fedeli di Clauzetto, le funzioni passarono alla Chiesa di San Giacomo, e nel volgere di pochi decenni non vi si conservò più l’Eucarestia né gli oli santi, come attestato dalla visita pastorale effettuata il 26 maggio 1853 dallo Scolastico Gabriele Micono. Un lento oblio avvolse dunque la pieve, sempre più lontana e recondita dall’abitato, immersa nel silenzio dei boschi e della montagna, per sua – e nostra-fortuna quindi conservata nel suo intatto fascino cinquecentesco.

La pieve è costruita nella pietra locale, ad aula unica rettangolare e abside quadrata archivoltata: la matrice nordica dell’architettura si riconosce, in analogia con altri esempi diffusi anche nell’area della Carniola, dall’arco trionfale a sesto moderatamente acuto in pietra, dalla volta composta a costoloni, con peducci e chiavi di volta eseguiti con cura sempre in pietra, dallo strato di colore, giallo ocra, che ricopre la struttura lapidea: è preceduta da un ampio portico con campanile con bifora campanaria impostato sulla facciata. Due campane quattrocentesche recuperate dal campanile precedente furono fortunosamente salvate dall’incetta della Grande Guerra, e sono forse tra le più antiche della Diocesi: sulla campana maggiore (1486) si legge la scritta “Dominicus de Utino me fecit MCCCCLXXXVI” e sulla minore “MAGISTER JACOBUS ME FECIT”. Portale d’ingresso, con stemma Savorgnan, e arco trionfale fanno ancora ricorso all’arco acuto, e l’arte degli spizapiera, alimentata dalle cave di Pradis, si evidenzia nelle pietre angolari, nelle raffinate costolature, mentre un caratteristico colore rosa-aranciato caratterizza le fughe, come ben si può vedere sulla parete esterna dell’abside, in virtù dell’utilizzo di una sabbia del posto dalla particolare cromia.

L’INTERNO
Già oggetto di pesanti infiltrazioni di umidità, e nel corso del tempo sottoposta a vari interventi di risanamento, oltre che di decoro, in particolare a lungo abbandonata nel corso dell’Ottocento, la pieve è stata restaurata dopo il terremoto del 1976 che aveva gravemente compromesso l‘edificio distruggendo anche la piccola sagrestia secentesca costruita nel 1655 al lato destro dell’abside, da Giovanni Battista Ceconi da Vito, scoperchiandolo e danneggiandone gli altari. In seguito ai saggi di pulitura condotti nella campagna di restauro della Soprintendenza tra il 1982 e l’ 83, è stata consolidata la decorazione murale originaria, di fattura cinquecentesca, rifatta nel secolo successivo, e già occultata da tinteggiature ottocentesche. In particolare è riemerso alla luce in tale occasione l’affresco con la Carità di San Martino alla destra dell’arco trionfale dopo la rimozione di un altare ligneo e anche alcune scritte che attestano gli interventi eseguiti all’epoca. In una lunetta sulla parete sinistra dell’abside infatti un’iscrizione in caratteri volgari ricorda proprio la date di edificazione “1503 ADI. (.) APRI FO CHO/MENZATA/1504 ADI 8 DI LUIO FO CO (M)PITA QUESTA/OPERA.”

La decorazione che occupa la navata consiste in una serie di arconi a tutto sesto poggianti su paraste a finto bugnato a punta di diamante in origine dalla vivace cromia (rosso, verde, giallo) che scandiscono con solennità a piena altezza lo spazio dell’aula, mentre la zona absidale conserva frammenti di una decorazione a motivi fitomorfi attestanti il gusto goticheggiante e l’ascendente nordico, del manufatto architettonico, trovando similitudini e riscontri nelle chiese della Carinzia e della Slovenia, come si evince anche dalla provenienza del suo costruttore. Lungo le pareti dell’aula sono ora chiaramente visibili anche le varie croci di consacrazione dipinte in forme diverse, circolari, distribuite come vuole il rito in tre esemplari secondo i quattro punti cardinali. Sulla parete destra dell’aula, entro una targa su una delle paraste, si legge inoltre l’iscrizione “Adi (.)(apri) i 1503 fu cominciata/qu(es)ta Chiesia et Adi 8 Lugli /15(04) fu finita e Adi(…)5/1602 fu restaurata et b(.)r(…)/Ad laudem dei onnipotent (…)/(L)uig (…)ius Santi Ni(…).

Una recente campagna di manutenzione conservativa (autunno 2016), ha permesso di sondare e recuperare in alcune parti lo strato originario di intonaco, ed è riemersa quindi alla luce, alla sommità della parete absidale, la figura fortemente stilizzata e arcaizzante di un crocefisso, dipinto con un tratto marcato, col sangue zampillante in ocra rossa, che riflette la matrice nordica e attardata dell’intervento decorativo oltre che della realizzazione architettonica nel suo complesso.

L’altare maggiore è dominata dalla monumentale ancona lapidea di Giovanni Antonio da Carona, detto il Pilacorte…(vai all’approfondimento)

GLI ALTARI

Ora collocati lungo la parete sinistra dell’aula, si conservano due altari lignei già ai lati dell’arco trionfale e rimossi dopo i restauri conseguenti al sisma del 1976, permettendo il recupero di due precedenti altari cinquecenteschi, a blocco con mensa in pietra, decorati ad affresco da Marco Tiussi, detto anche Marco da Spilimbergo (1500-1575). La figura di San Martino di Tours è affrescata sulla parete a destra dell’abside, datata al 1564 e scoperta dopo i lavori di restauro seguiti al terremoto del 1976, una volta rimosso uno degli altari lignei oggi addossato alle pareti dell’aula, caratterizzato dalla tela di Secante. La Carità di San Martino, sottoposta a un recente intervento conservativo che ne ha recuperato la vivace cromia (2016) è ambientata entro in una finta nicchia in un contesto architettonico tra paraste decorate reggenti una trabeazione coronata da una coppia di delfini affrontati simmetricamente, con pavimento a scacchiera caratterizzato da una prospettiva un po’ precipitosa, ed è caratterizzata nella statica frontalità dai modi propri dell’arte devozionale di carattere popolare. Alla base è dipinto compare lo stemma dei Fabricio, recante le lettere L e F, a indicare il committente, ovvero Leonardo Fabricio come attesta un inscrizione posta alla destra dell’opera “Q(UESTA) (O)PERA E (STAT)A FATA PMI MA(…)/DE (…)SPI(…)O: SIADO PIEVANO/IL P(…) LONARDO FABRICIO DE QUES/TA PIEV(…) ET SOTO LA CHAMARIA DE/(DA)NIEL ZANIER DE CLAUZET. 1564/A(…) I XV DE SEPTEMBRIO.” Dalla parte opposta, sulla parete a sinistra dell’abside, l’altare dedicato alla Madonna era anch’esso decorato da un affresco recentemente sottoposto a restauro, sempre di mano di Tiussi che qui riprende l’iconologia dell’immagine miracolosa della Madonna col Bambino già su una casa contadina a Rosa, tra due angeli oranti, icona più volte da lui replicata in affresco. L’altare di san Rocco, ora collocato lungo la parete sinistra, il primo entrando, e già a destra dell’arco trionfale, è opera di intagliatore friulano (sec. XVI) la cui policromia originale è andata perduta: il paliotto settecentesco è decorato con la figura di San Rocco, entro una ricca cornice floreale. La pala d’altare di Giacomo Secante (Udine, 1510 c.- 1585) con i SS. Rocco, Urbano e Sebastiano con un Angelo (1576), ora non in buone condizioni conservative, venne commissionata dalla Confraternita di San Rocco, essendo rettore Zaccaria Toson, istituita per voto di tutta la pieve nel 1533.
Un’iscrizione in parte abrasa attesta la firma e la data del dipinto e la motivazione votiva legata al culto di San Rocco e di San Sebastiano: “ESSENDO LA PESTE L’ANNO 15(76) GIACOMO SECANTE DETTO/TROMBON-DEPENSE”. Figlio di Sebastiano, Secante si firma col soprannome “Trombon” per distinguersi come ramo della numerosa famiglia udinese a cui apparteneva, che diede più generazioni di pittori. Autore di affreschi e pale d’altare tra cui tre dipinti presso la sagrestia del Duomo di Udine, del riquadro centrale con l’Allegoria con la Patria del Friuli del soffitto del salone del Parlamento del Castello di Udine, qui Giacomo si esprime con una convenzionalità in linea con la maniera cinquecentesca del Pordenone e soprattutto del suo allievo Pomponio Amalteo, con cui l’artista fu un stretta relazione.

L’altare dedicato alla Vergine, in legno dorato, già collocato alla sinistra dell’arco trionfale, di dimensioni monumentali, ora è accostato alla parete sinistra dell’aula:
come si consta dall’iscrizione e dal Catapan, fu eseguito nel 1660 per interessamento del pievano Giovanni Battista Ceconi (1649-1692), lo stesso che incaricherà una decina d’anni dopo “Zuanne da Gemona” per la stessa pieve della realizzazione della copertura lignea del battistero oggi trasferito a Clauzetto.

Assegnato a Gerolamo Comuzzo, capostipite di una famiglia gemonese di intagliatori e scultori lignei, fedele a un impianto strutturale ancora cinquecentesco, arricchito da figure di angeli, volute e racemi, testimonia quella sorta di horror vacui che caratterizza la sua maniera, transitando senza soluzione di continuità dalla scultura alla decorazione pittorica. Il figlio di Girolamo Francesco (Gemona, 1619- …) è documentato come autore di un tabernacolo nel 1666 per la stessa pieve di San Martino, andato perduto.

Nel 1872, quando lo descrisse nella sua guida Luigi Pognici, l’altare conservava ancora nella nicchia coperta a cristallo “piccole statue con la Madonna col Bambino assai espressive”, ovvero una serie di sculture tra cui la statua lignea con la Madonna col Bambino di Giovanni Martini (1508) ora al Museo Diocesano di Pordenone, superstite di un più ampio polittico ligneo. L’altare, oggetto di due furti dopo il 1976 ai danni del coronamento decorato da figure di Angeli, è decorato con un paliotto ligneo con la Madonna con Bambino entro una cornice rotonda, di fattura settecentesca.

La Madonna col Bambino dorata e dipinta, ora conservata al Museo Diocesano di Pordenone (inv. 22, cm. 84x48x27) è quanto rimane di un ancona lignea commissionata nel 1508 a Giovanni Martini ( 1470/1475-1535), uno dei massimi protagonisti del rinascimento friulano, pittore e scultore, figlio di Martino ed esponente innovativo della tradizione tolmezzina, legato da committenza alla famiglia dei Savorgnan della Bandiera, giurisdicenti del luogo. Il polittico, sicuramente di grande impatto decorativo e impostato secondo lo schema tradizionale “in due ripiani, con tre scomparti l’uno contenenti figure diverse”, ovvero secondo il tipo dell’ancona rinascimentale , aveva il cospicuo valore di duecentododici ducati e mezzo, e venne consegnato il 9 ottobre de 1520; le fattezze della Madonna e del bambino, di raffinata esecuzione, e la ritrovata policromia dopo un accurato restauro, rivelano pienamente l’impronta dell’artista. A questo altare è stata accostata anche una figura di San Giovanni Battista, mutila (cm. 76, egno intagliato, dorato e policromato, Collezione privata), le cui fattezze rimandano al Redentore dell’altare di Prodolone eseguito da Giovanni Martini.

Le fonti documentano inoltre l’esistenza nella pieve di un opera del cugino e coetaneo di Giovanni, anch’esso di nome Giovanni ma figlio di Domenico da Tolmezzo, intagliatore e pittore: si tratta di un’ancona di non grandi dimensioni che venne stimata da Pellegrino da San Daniele per quarantanove ducati e mezzo, già collocata entro un telaio dipinto con stelle colorate, di cui è stata persa traccia.

Gli arredi della Chiesa in origine contavano anche gli stalli lignei del coro, eseguiti nel 1533 per volontà di Leonardo Fabricio, rifatti nel nell’ottocento, come il confessionale, mentre nel 1653 diversi banchi vennero sostituiti e ancora riparati nel 1852: si conservano ancora alcuni banchi settecenteschi arricchiti da intarsi e decorazioni incise.

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