Giovanni Antonio Bassini, detto il Pilacorte

CENNI BIOGRAFICI

( Carona, 1455-Pordenone, 1531)

Da Carona, sul lago di Lugano, luogo di provenienza di moltissime botteghe famigliari di lapicidi approdati a Venezia verso la metà del Quattrocento per esercitare il loro antico mestiere nei grandi cantieri della Serenissima, dove era nato verso il 1455, Giovanni Antonio Bassini si stabilisce a Spilimbergo dal 1484 circa. D’ora in poi sarà universalmente noto come “Il Pilacorte”, appellativo comune (toponimo e patronimico) a molti altri lapicidi suoi conterranei, in quanto fu sicuramente il più attivo e noto scultore rinascimentale in Friuli. A Spilimbergo, al tempo città colta e florida, in pieno rinnovo edilizio e poco lontano dalle cave di pietra pedemontane, come Clauzetto, Meduno e Travesio, in grado di soddisfare con la loro pietra “dura” le esigenze degli scultori comacini, scelse di portare la sua famiglia, la moglie Perina, figlia di Orlando di Franchina da Carona, e la figlia Anna, che andrà in sposa a Donato Casella, suo stretto collaboratore: rimasto vedovo, nell’ultimo periodo della sua vita Pilacorte si trasferisce a Pordenone, vivendo a casa della figlia fino alla fine dei suoi giorni, nel 1531.

Della sua prima attività resta ad Acqui, in provincia di Alessandria, il portale della cattedrale, firmato e datato al 1481, mentre decisamente ampia e diffusa in tutto il Friuli è la sua produzione frutto anche della sua numerosa bottega composta da giovani lapicidi lombardi e friulani, e si registrano sue dimore a Spilimbergo, Udine, Cividale e infine Pordenone. Pilacorte orgogliosamente firma e data le sue opere ad imperitura memoria nella pietra bianca, assicurandosi una fama crescente e la vera e propria diffusione di un gusto, caratterizzato da un’impronta classica, da estrosi apparati decorativi e dai caratteristici puttini paffuti che ovunque, dagli architravi e da sotto le acquasantiere e i fonti battesimali, in schiere festanti sbucano impertinenti dal suo instancabile scalpello per catturare la nostra attenzione. Insinuandosi tra stipiti, colonne e capitelli, i suoi putti metà eroti e metà angioletti, spesso musicanti, personificano quella doppia natura classica e cristiana che caratterizza l’iconografia rinascimentale, cui si affiancano presenze ambigue tra uomo e animale, tritoni e tritonesse, di carattere metamorfico e mostruoso evocate da un immaginario di ferina paganità.

Al 1484 risale forse la sua prima opera friulana, il portale della sagrestia della pieve di San Pietro a Travesio, con la data bene impressa nell’architrave poggiante su due pilastri decorati a candelabre: in questo primo esempio la decorazione è semplificata e serti vegetali si dipartono da vasi alla base dei pilastri arricchendosi nello sviluppo verticale con frutta fiori, uccellini, in un modellato vigoroso, a spigoli vivi. Un Angelo Annunciante e la Vergine, con il Padre Eterno, ora collocati sull’architrave, completano l’opera emergendo alla luce con un panneggio semplificato e volti ben definiti nelle diverse tipologie ed espressioni. Al 1485 si data un fonte battesimale a Meduno, nella Chiesa Parrocchiale, in parte smembrato, dove dalla coppa costolata si affacciano volti di cherubini alati e paffutelli, che si guardano in giro sgranando gli occhi, volti espressivi che ritroviamo a scandire ritmicamente lo spazio nella strombatura degli stipiti del portale della Chiesa di San Marco a Gaio di Spilimbergo (1490), percorso da una raffinato repertorio decorativo, che va dal motivo plastico della catena al sottilissimo bassorilievo delle candelabre, sotto l’ala protettiva di un leone di San Marco ripiegata come un cartiglio. Ma sono legioni di putti e cherubini che spesso occhieggiano facendo smorfie e sorrisi di complicità sparsi nella molteplicità dei suoi portali, nella Chiesa del cimitero di Sedegliano (1497) a Provesano, altri 1487 a S. Nicolò a Sequals (1503 c.) nella Chiesa di S. Maria del latte a Zancan di Travesio (1505) all’interno della Chiesa di Ognissanti a Camino al Tagliamento (c. 1507) e in molte altre Chiese, riproponendo un’analoga impostazione con continue varianti compositive.

E ancora a Travesio si conserva un fonte battesimale (1490) piuttosto massivo, dove finalmente i putti prendono corpo sottoforma di tre angioletti musicanti seduti sopra cartigli, mentre il fonte battesimale per il Duomo a Spilimbergo (1492-93) sicuramente tra i più riusciti, introduce un nuovo senso del “grottesco” e del mistero, con quattro busti di sfingi alate alla base, dove due volti femminili che si alternano a due maschili, uno barbuto, volti nei quali Pilacorte ha modo di rivelare la sua attenzione per la ritrattistica, e manifestare tutta la ricchezza dei suoi apparati decorativi, nell’intaglio dei fregi classicheggianti, e nella fascia a motivi vegetali e fitomorfi che corre intorno alla vasca: molti altri esempi elaborarono successivamente questi motivi, in forme più o meno complesse e figurate, tra cui qui segnaliamo il fonte battesimale a San Nicolo a Sequals (1497), dove i puttini reggono come telamoni la vasca battesimale, mentre puttini musicanti si rincorrono in quello della Chiesa parrocchiale di Beano (1517). Ma Pilacorte è anche capace di improvvisi inaspettati scarti e invenzioni, come nel fonte battesimale per la Chiesa di S. Lorenzo di Sedegliano, dove sul dado della base compaiono agraffito un bue e attrezzi agricoli, sparsi nello spazio con libertà ed efficace effetto decorativo di grande modernità, invenzione rielaborata nello stesso anno (1503) nell’acquasantiera della Chiesa di S. Giuliano a Coderno, a sottolineare la sacralità del lavoro ma anche, pensando agli strumenti del lavoro artigiano e agricolo connessi alla figurazione del Cristo della Domenica, l’invito all’osservanza del precetto festivo. Si tratta di un’iconografia che si lega al secolo precedente e a una cultura di carattere popolare che in Friuli è documentata da un raro affresco preso la Chiesa di Santa Maria dell’Ospedale a Pordenone, attuale Chiesa del Cristo di Pordenone, che sicuramente Pilacorte conoscenda, essendo lui stesso stato incaricato della realizzazione del suo portale poi realizzato dalla sua bottega (1510).
Al 1493 risale anche il portale della Chiesa dei Battuti a San Vito al Tagliamento, archivoltato come quello di Travesio ma completato da una lunetta con una lastra in cui è scolpita una Madonna della Misericordia, tra cherubini, e ai lati dell’archivolto l’Angelo annunciante e la Vergine, sovrastati dal Padre Eterno, mentre nei pilastri decorati a candelabre compaiono lateralmente patere con le figure di Santi Vito e Modesto, secondo una modalità che ritroviamo in altri suoi portali, come nella già citata Chiesa del cimitero di Sedegliano (1497) Flaibano (1506), Arcano inferiore, Turrida (1516), Goricizza (1525).

La concorrenza con la scuola tolmezzina dell’intaglio, grazie al prezzi più bassi e all’impiego di dorature e colori per ravvivare la pietra bianca delle cave pedemontane, porta lo scultore e la sua bottega a elaborare anche vere e proprie “ancone” o pale d’altare in pietra, secondo la tradizionale articolazione a trittico, ovvero a tre scomparti sormontati da una lunetta con stipiti e architrave fittamente decorati a motivi fitomorfi, come nel caso della Madonna con bambino tra Santi, in San Nicolò a San Giorgio della Richinvelda (1497). Ma è nel Duomo di Spilimbergo che Pilacorte ha modo di esprimere più compiutamente il suo senso di uno spazio misurato e misurabile, scandito dall’arco trionfale e dall’architrave decorata: oltre alla realizzazione dei due Amboni, definisce con arconi a tutto sesto l’altare di San Giovanni Battista (ora Sant’Andrea), la cappella del Carmine (1498) e il cui altare, sempre di sua mano, in antico ospitava la pala di Giovanni Martini (1503 ca.). Qui Pilacorte interviene delimitando lo spazio con un’ampio arco d’ingresso, alla cui base si legge la firma e la data 1498, che anticipando la tipologia del portale per il Duomo di Pordenone, è sormontato da un Cristo passo tra due angeli, con una balaustrata a colonnette arricchita alle estremità laterali da quattro busti con angeli reggicandelabro, figure particolarmente definite nell’espressione infantile, assorta e composta, le cui eleganti vesti sono percorse da un ritmico tenue panneggio e i boccoli della capigliatura disposti in file ordinate. Lungo la navata settentrionale l’altare di Sant’Andrea (post 1501) si distingue per la ricca e articolata decorazione con scene dall’antico testamento lungo la base (Giuditta, Sacrificio di ovini, Sacrificio di Isacco e Roveto ardente), scene riferibili alla vergine Maria, cui in antico era dedicato l’altare: all’imposta del pilastro destro si legge la scritta “CECROPS”, interpretata come un richiamo all’essere mitico e del primo re di Atene, mentre compare tra i mascheroni e le creature simboliche bifronti anche un triplice volto accompagnato dalla scritta “FOELIX V(ale) F(oeliciter), composto da tre diversi sembianti, a indicare una triplice divinità (assimilabile all’allegoria del Destino, o della Prudenza, ma anche alla Trinità) indizio della complessità della sua cultura umanistica e classica del Pilacorte, diffusa sull’onda della riscoperta delle grottesche il cui principale protagonista e interprete fu, all’interno della scuola di Raffaello, Giovanni da Udine, attivo poco dopo anche nella stessa Spilimbergo, centro di vivace cultura umanistica e classica, cultura che si incontra nella sua opera con la dottrina cristiana, in un dialogo che poi verrà interrotto dalla Controriforma. Al 1511 risale il portale per il Duomo di Pordenone, impostato secondo lo schema rinascimentale con il frontone semicircolare poggiante su una trabeazione e pilastri dotati di basamenti composti da plinto e dado sovrapposti: unanimemente ritenuto uno dei più riusciti esempi del Rinascimento in Friuli, sia per la parte plastica ma soprattutto per le invenzioni decorative e figurative che animano gli stipiti con bassorilievi di squisita fattura che alludono allo scorrere ciclico del tempo. Il Cristo passo, tra due angeli piangenti, e la statua di San Marco sopra il frontone, coronano il portale, mentre all’interno del Duomo si conservano di sua mano una sontuosa pila per l’acqua santa (1508) e il fonte battesimale concepito a tempietto che rinnnova la tipologia in uso (1506). Nella scena di lapidazione di Santo Stefano, per la lunetta del portale di Gradisca di Sedegliano, Pilacorte sfoggia anche la capacità di passare dal tutto tondo allo stiacciato (1515), mentre un nuovo impegno monumentale lo porta ad elaborare altari sempre più complessi e ricchi di figure, dall’impianto a trittico con sovrastante edicola nella chiesa di Villanova di Pordenone (1520) fino al più grande altare lapideo del Friuli, conservato nella pieve di San Martino d’Asio, che con i suoi tre ordini di figure assume le connotazioni di un vero prospetto architettonico. Il suo ampio e organizzato raggio d’azione, dalle statue ai portali, balaustre, acquasantiere, fonti battesimali, dove la pietra si anima di raffinate ornamentazioni di ispirazione classica dando vita a figurazioni a tutto tondo di sodo plasticismo, sostituendo ovunque al gotico fiorito la nuova misura rinascimentale, e all’arco trilobato la solennità dell’arco a tutto sesto, conta però anche molti altri altari oggi smembrati o perduti, spesso colorati per fare concorrenza a quelli lignei degli intagliatori tolmezzini. Forti di una tecnica e di un mestiere che prevede una formazione di bottega e adeguata strumentazione, Pilacorte diffuse in tutti il Friuli il nuovo gusto rinascimentale nella scultura in pietra, presto imitato non solo dai più stretti collaborati ma da più generazioni di scalpellini.